Bibenda
44° FORUM - Intervento ANGELO GAJA
Il discorso di Angelo Gaja, iconico Produttore di Vino
Il Cammino del Vino, Bevanda Culturale per Eccellenza

Dal racconto dell’olio a quello del vino, “sono un privilegiato, perché non mi sarei mai sognato di parlare un giorno di fronte al Presidente della Repubblica ed a questa platea di personalità politiche, imprenditori produttori dell’olio e del vino, e di sommelier - ha detto Angelo Gaja, l’“artigiano” del vino italiano per eccellenza, uno dei produttori italiani più ammirati nel mondo nel suo “excursus” sul vino italiano - ma questo succede solo a Roma, e ogni volta che c’è il Forum dell’Olio e del Vino, edizione n. 44 della Fondazione Italiana Sommelier che sono seminatori di cultura. Ho dato un titolo al mio intervento “Il cammino del vino italiano”, ma devo essere breve, perché se dovessi descriverlo tutto non basterebbero settimane. Negli ultimi 70 anni c’è stata un’evoluzione nel mondo del vino, ovunque nel mondo, non solo in Italia, straordinaria ed incredibile, cambiamenti profondi, di innovazione ed evoluzione, nel vigneto, in cantina e nel mercato, a cui ho avuto la fortuna di assistere, avendo iniziato a lavorare in azienda nel 1961, e avendoli vissuti per oltre 60 anni. Non è che abbia capito tutto, ma ho appreso molto da questo percorso straordinario del vino italiano. Ma torniamo indietro, al decennio Cinquanta-Sessanta: in Italia si producevano anche dei vini di qualità da parte dei piccoli artigiani, ma la stragrande maggioranza erano vini banali, imbottigliati in fiaschi e bottiglioni da 2 litri che esportavamo. 

 

Eravamo alla deriva, e ci voleva un colpo di reni. E abbiamo avuto la fortuna di avere un senatore come Paolo Desana, originario di Casale Monferrato, che ha avviato il progetto delle Doc, e lo ha sostenuto per 20 anni nonostante i contrasti dovuti ad interessi diversi, con l’obbiettivo di arrivare al loro riconoscimento con la legge quadro 930 del 1963, con i primi vini che usciranno sul mercato nel 1966, il Brunello di Montalcino, il Barolo ed il Barbaresco - ha ricordato Gaja - ma in quale direzione si voleva andare? Anziché come si faceva prima con vini che principalmente portavano il nome varietale, ma non si sapeva da dove provenivano anche per le mescolanze, volevamo legare il nome varietale al luogo di origine, al territorio. Un progetto ambizioso che richiedeva del tempo, e c’è n’è voluto per realizzarlo. Perché era quello di valorizzare, di tutelare, le varietà indigene e storiche. Questi vini che si producevano venivano definiti dal mondo anglosassone “cheap & cheerful”, di basso prezzo e di qualità modesta, cosa che volevamo superare con le Doc. Ma sempre gli anglosassoni ci accusavano di confusione perché rispetto ai francesi, che avevano solo la Doc, volevamo avere due riconoscimenti con anche la Docg, e volevano sapere con quale garanzia. Ma siamo stati capaci di correggere questa confusione e di venire apprezzati per le nostre produzioni. In quel momento in Toscana, che produceva anche allora bottiglie di Chianti eccellenti, ma c’era una massa che andava nel fiasco abbastanza banale, dove qualche volta si ricorreva fino al 40% di varietà bianche come il Trebbiano, dei coraggiosi volevano ridare dignità alla loro terra. Nel 1968 esce il primo Sassicaia, nel 1974 il Tignanello, vini prodotti con varietà internazionali, Cabernet e Merlot nella fattispecie, che esprimevano un livello qualitativo elevato, ma con sempre gli anglosassoni a dirci che non potevano rientrare in una denominazione di origine controllata, e che, nonostante li giudicassero migliori e li pagassero un prezzo più elevato, invece noi li chiamavano vini da tavola: sono poi diventati i Supertuscan, ma ci sono voluti 25 anni per farli rientrare in un’Igt, entrata in vigore nel 1994. Che cosa ha dimostrato l’Italia? Che è capace di lavorare su due tavoli - e ci viene riconosciuto ovunque - quello delle varietà indigene e quello delle varietà internazionali. Questa è una ricchezza dell’Italia costruita in 70 anni e che oggi rappresenta un patrimonio straordinario. Lentamente ci siamo resi conto che le varietà indigene sono la nostra “Riserva Aurea”, sono il nostro “Fort Knox” - ha esortato Gaja - e che è lì che dobbiamo attingere, perché non c’è nessun Paese al mondo come l’Italia in cui i vigneti sono dappertutto, in tutte le regioni, oltre 300 varietà indigene che danno vini diversi e che sorprendono: è una ricchezza straordinaria. C’è voluto tempo per capirlo, ma oggi ne siamo consapevoli. Perché fanno del nostro Paese uno “scrigno di bellezza” ad arricchire il quale abbiamo contribuito anche noi viticoltori per anni e di generazione in generazione, dal mare alle montagne, anche se normalmente le varietà indigene riescono ad esprimere livelli di qualità elevati in collina, perché la vite ha bisogno anche di terreni magri anziché super ricchi, e trova nel vigneto un’eccellenza. Cosa dobbiamo fare ora? Imparare a meravigliarci di questa bellezza che abbiamo: l’Italia è uno scrigno di bellezza e la meravaglia ci aiuta a capire che dobbiamo conservare, tutelare e proteggere questo paesaggio, un patrimonio incredibile ovunque. E dove i vigneti originano vini di luogo, ed ormai nel mondo ci viene riconosciuto che la forza del vino italiano sta nel produrre vini da queste varietà indigene, storiche, locali, che esprimono l’identità di ogni regione. Per quanto riguarda, invece, il mercato, e quello estero in particolare, abbiamo lavorato tutti molto, partendo da un livello molto basso, e cercando di far crescere il riconoscimento e l’apprezzamento dei vini italiani, e non ho mai visto un riconoscimento così chiaro, definitivo e assoluto sulla qualità media del vino italiano che è salita enormemente, come oggi, anche grazie a chi ha organizzato tanti eventi fuori dall’Italia.

 

C’era un momento in cui anche i giornalisti mi dicevano che guardavo solo all’estero: non è vero, perché l’Italia è il mio mercato di riferimento - ha spiegato Gaja - in cui devo essere capace di collocare i vini nei locali, dove le bottiglie si bevono e vengono apprezzate. Ma l’estero è un mercato enorme e c’è anche l’orgoglio di portarvi l’italianità, e la necessità, perché abbiamo una produzione importante, meno della metà consumata in Italia, e il resto all’estero dove dobbiamo essere capaci di costruire la domanda. A costruirla sono state prima di tutto le cantine medio-grandi che hanno fatto un lavoro straordinario nell’aprire i mercati esteri. Poi ci sono le aziende micro artigianali: in Italia ci sono oltre 30.000 cantine, l’80% sono medio-piccole e con un fatturato sotto il milione di euro. E sono un patrimonio enorme e creativo, che non va coperto di burocrazia, perché hanno una funzione straordinaria, perché sono il sogno di soggetti anche istruiti che vivono in città, ma che desiderano andare a lavorare in campagna ed avviare la loro produzione, e nessun altro prodotto come il vino sa salire sul palcoscenico. Queste cantine piccole ed i loro artigiani del vino appassionano molti giovani enoturisti, anche di città, e il mercato, si sa, si nutre di novità. I piccoli hanno la funzione di avviare la passione e la conoscenza dei giovani che vivono in città e non conoscono la provincia italiana verso il settore, insomma. Siamo in un momento di grandi sfide: per affrontare il cambiamento climatico dobbiamo avere una disponibilità quotidiana all’adattamento nel vigneto, in cantina e sul mercato. Dobbiamo sforzarci di imparare a leggere il presente con gli occhi di domani non di ieri, come lei ha detto, Presidente, con creatività (e penso anche all’Intelligenza artificiale). Certo che gli occhi di ieri ci servono per capire gli errori che abbiamo commesso, ma dobbiamo affrontare il futuro e abbiamo tutte le possibilità di farlo. Ci vuole questo coraggio. Il vino è una bevanda culturale straordinaria, ha una profondità che nessun altra bevanda alcolica al mondo ha, ha radici che vanno nell’umanità, nel paesaggio, nella storia, nella filosofia, nella cultura, nella tradizione, nella religione. Non è facile condensare tutto questo in un messaggio, ma dovremo anche riequilibrarlo, perché dobbiamo aiutare le persone a capirlo, ma anche che lo devi bere con misura, con buonsenso, con consapevolezza, non mi piace moderazione. E dobbiamo anche essere consapevoli che ci sono Paesi come l’Asia e come l’Africa, dove si aprono nuove frontiere, lentamente ma che maturano, perché vi si stanno piantando vigneti. Paesi che non sono concorrenziali, ma che accrescono la conoscenza del vino. L’ambizione di questi soggetti che piantano vigneti anche dove non mai è stato fatto prima è, infatti, anche di esprimere il loro orgoglio identitario anche attraverso il vino, e così cresce anche la cultura dei locali che poi, ovviamente, sono aperti anche verso altri vini. Dove dobbiamo guardare per il nostro futuro? Ai giovani - ha concluso Gaja - donne e uomini preparati, che conoscono le lingue e che sanno usare tutti gli strumenti possibili, e che sono nel mondo del vino e che saranno capaci di sorprenderci perché crediamo in loro. Hanno la possibilità di guadagnarsi spazi nei mercati esteri e portare alta la bandiera italiana. Sta a voi percorrere questa strada. Infine, voglio dire qualcosa anche sull’olio: la pianta di olivo ha una bellezza incredibile, e anche qui saranno i giovani il futuro con il loro coraggio di piantare nuove cultivar dopo la Xylella, e di portare alta la bandiera italiana grazie all’olio, insieme a noi produttori di vino”.

Angelo Gaja
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