Il vino e la musica dell’anima Seconda Parte
Tra sacralità e amor profano, la conclusione di un interessante approfondimento sulla musica soul.
Pubblicato il 28/02/2018
La Soul Music si guadagna il nome sull’onda delle emozioni che solo le commistioni culturali delle origini africane con quelle americane di adozione riescono a creare nell’ “anima” di chi ascolta. In questa miscela emergono contemporaneamente l’orgoglio di essere nero e l’identificazione con il prodotto culturale della commistione: la cultura afroamericana.
Nel vino succede la stessa cosa, per diventare “vino dell’anima” la sofferenza si deve mescolare con culture diverse per conquistare, dopo secoli, una propria identità di cui poter essere orgogliosi. Tante sono le viticolture eroiche che hanno visto l’uomo creare, nel corso del tempo, le condizioni adatte all’allevamento della vite in zone impervie poco ospitali anche per l’uomo. Tra di esse poche, però, hanno visto l’avvicendarsi di popoli di cultura diversa alla guida di queste creazioni. Una di esse è sicuramente rappresentata da Pantelleria. Abitata da genti di origine tunisina sin dal neolitico, l’isola venne colonizzata dai Fenici, a cui si deve l’introduzione del moscato dalla vicina Alessandria d’Egitto, per tornare presto sotto l’egida cartaginese. Ai Romani si deve il suo sviluppo commerciale, con la creazione di più insediamenti urbani. Dal VII secolo fu oggetto di invasioni da parte degli arabi, che si insediarono in modo permanente nell’865. Due secoli di pacifica occupazione e diverse incursioni, avvenute dopo la conquista dell’isola da parte dei Normanni di Ruggero I di Sicilia, hanno profondamente influenzato la cultura dell’isola. Con l’influsso arabo l’uva diventa “zabib”, cioè uva passita, vennero edificati i dammusi con i loro caratteristici tetti a cupola, e approntati i terrazzamenti sui quali lo Zibibbo viene tuttora coltivato. Il dialetto pantesco, simile al maltese, risente pesantemente dell’influsso arabo tanto che le contrade e le alture portano nomi orientaleggianti come Bukkuram, Bugeber, Kaddiuggia, Khamma, Mueggen solo per citare le più note. Gli arabi introdussero anche, otto secoli prima degli inglesi nei futuri Stati Uniti, la coltivazione del cotone e, nel 1488, durante una razzia dei tessuti di bambagia, prelevarono ottanta dei poco più di duecento abitanti per trasformarli in schiavi, anticipando l’altra pratica in uso nell’America confederata. Fece addirittura peggio, meno di un secolo dopo, il corsaro ottomano Dragut che ridusse in schiavitù la quasi totalità della popolazione isolana sopravvissuta al suo assalto.
Nel vino succede la stessa cosa, per diventare “vino dell’anima” la sofferenza si deve mescolare con culture diverse per conquistare, dopo secoli, una propria identità di cui poter essere orgogliosi. Tante sono le viticolture eroiche che hanno visto l’uomo creare, nel corso del tempo, le condizioni adatte all’allevamento della vite in zone impervie poco ospitali anche per l’uomo. Tra di esse poche, però, hanno visto l’avvicendarsi di popoli di cultura diversa alla guida di queste creazioni. Una di esse è sicuramente rappresentata da Pantelleria. Abitata da genti di origine tunisina sin dal neolitico, l’isola venne colonizzata dai Fenici, a cui si deve l’introduzione del moscato dalla vicina Alessandria d’Egitto, per tornare presto sotto l’egida cartaginese. Ai Romani si deve il suo sviluppo commerciale, con la creazione di più insediamenti urbani. Dal VII secolo fu oggetto di invasioni da parte degli arabi, che si insediarono in modo permanente nell’865. Due secoli di pacifica occupazione e diverse incursioni, avvenute dopo la conquista dell’isola da parte dei Normanni di Ruggero I di Sicilia, hanno profondamente influenzato la cultura dell’isola. Con l’influsso arabo l’uva diventa “zabib”, cioè uva passita, vennero edificati i dammusi con i loro caratteristici tetti a cupola, e approntati i terrazzamenti sui quali lo Zibibbo viene tuttora coltivato. Il dialetto pantesco, simile al maltese, risente pesantemente dell’influsso arabo tanto che le contrade e le alture portano nomi orientaleggianti come Bukkuram, Bugeber, Kaddiuggia, Khamma, Mueggen solo per citare le più note. Gli arabi introdussero anche, otto secoli prima degli inglesi nei futuri Stati Uniti, la coltivazione del cotone e, nel 1488, durante una razzia dei tessuti di bambagia, prelevarono ottanta dei poco più di duecento abitanti per trasformarli in schiavi, anticipando l’altra pratica in uso nell’America confederata. Fece addirittura peggio, meno di un secolo dopo, il corsaro ottomano Dragut che ridusse in schiavitù la quasi totalità della popolazione isolana sopravvissuta al suo assalto.
Le similitudini culturali tra la comunità afroamericana e quella di Pantelleria seguono, però, due fil rouge diversi: la musica per la prima, l’uva per la seconda. Diverse sono anche le condizioni ambientali, l’isola, infatti, è un vulcano attivo, con l’ultima eruzione registrata nel 1891. I terreni lavici, creatori di sofferenza per la difficoltà insita nel lavorarli, regalano tuttavia alle piante un nutrimento minerale unico e ricco. Maestrale e scirocco sferzano l’isola per dodici mesi all’anno irrorando con sensazioni salmastre il territorio. In queste condizioni l’unico modo di allevare la vite è l’alberello basso, spesso inserito in conche create artificialmente per proteggere la pianta. Questo tipo di coltivazione è stato inserito, per la sua unicità, nel Patrimonio Mondiale dell'Umanità UNESCO il 26 novembre 2014.
L’isola, inoltre, impone la sua filosofia con il mare che allo stesso tempo difende e imprigiona, creando, come la musica nera, un’identità culturale unica e fortemente radicata, che non trova riscontri altrove. Un’identità costruita sul calore del sole, sulla dolcezza del frutto, sulla durezza della roccia e la forza effimera del vento. Muretti a secco segnano i confini di una personalità energica forgiata dall’orgoglio suscitato dall’aver superato le avversità e le sofferenze insite nella propria storia. Nasce cosi il vino dell’anima, dopo pochi giorni di appassimento al sole caldo del Mediterraneo. Piccola isola con una superficie di ottomilatrecento ettari, di cui meno del venti per cento vitati, Pantelleria non offre spazio sufficiente a grandi produzioni. Prevalgono, così, le piccole realtà aziendali, alcune delle quali di proprietà di importanti produttori siciliani, altre, per lo più di piccoli vignaioli locali che maggiormente esprimono l’identità, o meglio l’anima di questo vino. Tra essi spicca Salvatore Murana, una delle espressioni originali di questa identità isolana, con alle spalle sei generazioni di viticultori che hanno sofferto su questi impervi pendii sin da prima dell’arrivo della fillossera, quando, nel 1925, il vigneto copriva oltre metà del territorio isolano.
Una produzione che, fatta eccezione per una piccola concessione al Nero d’Avola con cenni di internazionali a bacca rossa, è interamente imperniata sul Moscato d’Alessandria. Sette contrade con caratteristiche diverse danno vita a una produzione articolata tra Bianco, Moscato e Passito di Pantelleria. La scelta inevitabilmente cade sulla tipologia che meglio esprime l’anima pantesca: il passito. La contrada che fornisce uva e nome al vino è quella di Martingana, l’annata prescelta, attualmente in vendita, è la 2006:
Anche per la musica la scelta cade su un classico indimenticabile “Respect” di Otis Redding ma nella versione riadattata di Aretha Franklin, “The Queen of Soul”. La canzone fu scritta e incisa da Otis Redding nel 1965. Nella versione originale il testo recitava la richiesta, alla propria donna, di rispetto da parte di un uomo che rientrava a casa. Piccole modifiche al testo fecero della versione di Aretha Franklin nel 1967 uno degli inni del movimento di emancipazione della donna e della comunità afroamericana.
Dopo un giro di introduzione la voce, già dalla prima strofa, si affaccia prepotente sulla base ritmica serrata a presentare subito le vibrazioni della tradizione “black”, allo stesso modo le sensazioni mediterranee calde di fico d’India, dattero e agrumi canditi emergono dal bicchiere a sottolineare l’appartenenza al profondo sud del bacino marino che ha fatto da culla alla storia occidentale. Una sferzata di iodio ricca di note minerali ferrose ci ricorda la sofferenza nel domare questo territorio vulcanico emerso dal mare, così come il controcanto che sollecita rispetto, anche in piccola parte, esprime l’esigenza di riscatto dal dolore dell’asservimento. In bocca la freschezza intatta fa da contrappunto alla dolcezza regalando leggerezza e voglia di vivere. Rispondono all’udito ritmo e blue note in crescendo, creando allegria e voglia di ballare, che fanno emergere l’orgoglio e la forza derivante dalla libertà riconquistata. Coerenti richiami retro olfattivi sanciscono definitivamente l’unicità espressiva del vino, esattamente come canto e contro canto disegnano l’indipendenza e la coscienza della propria condizione. Sorso e brano chiudono insieme con quella lunga persistenza gusto uditiva che solo la profonda identificazione culturale può dare al vino e alla musica per renderli “timeless” oltre il tempo e lo spazio.