Certi vicini di casa
La favola del vino continua. Dal nostro corrispondente ad Aruba arriva un nuovo capitolo.
Pubblicato il 02/05/2017

Un vitigno che gli Spagnoli si sono trovati tra i piedi esattamente come gli Italiani si sono trovati tra i piedi il Trebbiano. E come noi, un tempo, lo infilavamo nell’uvaggio del Chianti, loro lo mischiavano al Tempranillo e alla Garnacha e, nel Rioja, per disfarsene agevolmente, si sono inventati anche la denominazione Rioja Blanco, approfittando poi della fillossera per sostituire le viti di Macabeo con quelle più affidabili di Malvasia e di Garnacha blanca.
Ma, si sa, alle mode non si resiste e, così, ecco che non si riesce a sfuggire alla tentazione di “rivalutare” un vitigno autoctono e spedire in giro per il mondo un vino la cui unica destinazione possibile è quella di un consumo “facile” da osteria (ma rigorosamente in assoluta giovinezza) o da taglio, non per migliorare altre varietà ma per allungare il brodo, per vendere cento litri di Malvasia o Chardonnay, impiegandone solo cinquanta o sessanta.
La verità è che la “resurrezione” dei vitigni autoctoni non è sempre e solo determinata dalla loro qualità intrinseca: spesso si riesce ad ottenerne buoni risultati unicamente grazie alle nuove tecniche di vinificazione ed alla crescente sapienza degli enologi. Però, critici ed esperti, degustatori e comunicatori ogni tanto dovrebbero avere l’onestà intellettuale di dire pane al pane e, soprattutto, vino al vino. E quando un vitigno “nun je la fa” dirlo chiaramente e suggerire ai produttori di abbandonarlo: con le tecniche viticole odierne in due o tre anni si riesce a reinnestare e riqualificare un intero vigneto senza mettere a repentaglio nemmeno una vendemmia. E la tradizione? Meglio un tradimento virtuoso che una tradizione malefica!