Come eravamo
Nel calice rosa di DomPé Oenothèque, le Olimpiadi, Jayne Mansfield, i gerani da annaffiare, mezzo secolo di ricordi altrettanto ineguaglibili.
Pubblicato il 30/08/2017




Roma caput mundi è ai nostri piedi, e la notte stellata, piuttosto afosa, spinge a nuovi sorsi, ma l’ Œnothèque Rosé è talmente espressivo, ricco di personalità, da dare l’impressione di un dialogo con creatura viva, seducente e femminea per la carnalità e la raffinata sensualità che ne promana. All’Hotel Cavalieri, già Hilton, quartier generale della nostra Fondazione, ancora non si è spenta l’eco dei festeggiamenti per il cinquantenario. Mezzo secolo fa portavo i calzoni corti, ma ricordo bene il clima di guerra tra ecologisti avversari del progetto e “palazzinari” sostenitori, e le polemiche trascinate negli anni. Monte Mario, all’epoca, era un parco panoramico non ancora stravolto dalla speculazione edilizia, ma nella Roma delle Olimpiadi il cemento avanzava rapidissimo e inarrestabile, particolarmente invasivo da nord, ove arrivava la Via Francigena, percorsa da viaggiatori a cavallo (da cui il nome Cavalieri) che smontavano in vista dell’Urbe. In mezzo secolo, non si contano gli ospiti illustri dell’hotel, da Fred Astaire a John Travolta, da Liza Minnelli a Julia Roberts, oltre a innumerevoli capi di stato e personalità della cultura. In questa splendida serata romana, sedotto, quasi stregato dal calice rosa che più rosa non si può, sia in senso cromatico che come ologramma di splendida rosa materializzato all’olfatto, pensieri e ricordi si accavallano, e viene in mente una sfortunata diva hollywoodiana, da noi, molto ingiustamente, quasi dimenticata.






Non è dato sapere se, nei suoi capricci da diva, abbia preteso lenzuola rosa, ma di certo, quando il regista Luigi Scattini e il produttore Fulvio Lucisano le proposero un ruolo da protagonista, non si volle scomodare troppo, e ottenne di girare molte scene direttamente nella stanza dell’Hilton dove alloggiava. A fare da spalla alla diva, che recita assieme al secondo marito, Mickey Hargitay, i nostri Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, che seppure specialisti di film a basso costo, erano amatissimi da registi impegnati come Pasolini e Fellini, rivelandosi in grado di non sfigurare nemmeno accanto a un mostro sacro come Buster Keaton. Racconta il regista Scattini: “Jayne era bellissima, una superfemmina, una vera bomba sexy; amava il colore rosa in modo maniacale, tanto che sul set fece impazzire mia moglie, che mi aiutò a trovare lo smalto della tonalità rosa che voleva lei e il due pezzi utilizzato nel film. La accompagnò infatti, in un noto negozio romano dove dovettero farle su misura il pezzo di sopra perché non esisteva una misura per lei.



A parte questa sua mania per il colore rosa, per il resto era una vera professionista. Molto seria sul lavoro. Giocava a far la sciocca ma non lo era. Io la andavo a prendere sempre in aeroporto quando arrivava a Roma dagli Stati Uniti, e parlavamo a lungo. Lei soggiornava sempre all’Hotel Hilton, ed è proprio lì che abbiamo girato gran parte degli interni. Il film costò all’epoca circa 40 milioni, e ne incassò circa un miliardo. La bellezza della Mansfield e le gag di Franco e Ciccio aiutarono il successo del film, che oggi mi risulta essere considerato, dalle nuove generazioni e dagli amanti del genere, un vero e proprio cult”. “L’amore primitivo”, in effetti, esce in mezza Europa e, naturalmente, anche negli Usa.




L’incontro con il professore avviene nella camera dell’albergo dove la giovane studentessa soggiorna.
Intanto, due maldestri camerieri siciliani, Franco e Ciccio, soggiogati dalla bellezza esplosiva della nuova ospite, fanno di tutto per avvicinarla, scatenando una serie di gag, tra le quali (parecchio osé per l’epoca) è indimenticabile il sogno di Franco, che in costume da selvaggio suona il tam tam mentre la Mansfield si scatena in una conturbante danza orgiastica. Ma il sogno svanisce, e Franco si risveglia disgustato in braccio a Ciccio. Svanisce, centellinando le ultime gocce di rosé, anche il mio sogno romano a occhi aperti, torna a chiudersilo scrigno della memoria su una pagina senz’altro minore della nostra cinematografia, preziosa tuttavia perché specchio dei costumi del tempo, quando una bambola rosa era sufficiente a creare profondo scompiglio e turbamento nell’animo degli italiani alla vigilia della rivoluzione sessuale degli anni settanta-ottanta. Riflessioni forse fatue, ma adatte a una afosa serata d’estate, stimolate dal più speciale tra gli Champagne rosé, sorseggiato in speciale compagnia. Dom Pérignon Rosé Œnothèque:“the one and only” si potrebbe dire. Furono appunto queste le ultime parole pronunciate orgogliosamente da Jayne Mansfield, in risposta a un’ammiratrice che l’aveva fermata all’uscita da un locale, chiedendole se fosse proprio lei, la famosa diva. La stessa sera, pochi istanti dopo la mezzanotte, la lussuosa Buick Electra del ’66 sulla quale Jayne viaggiava con figli, cagnolini e il suo avvocato-amante per il quale aveva avviato il divorzio, si schiantava contro un camion sulla highway tra Biloxi e New Orleans. Si salvano solo i ragazzi, sul sedile posteriore. La diva è orribilmente straziata dalle lamiere, come pure il giovanissimo autista, vittima secondo gli esperti della cosiddetta «sindrome di Diana». Come per l’ex principessa del Galles, infatti, sarebbe stato fatale lo stress indotto da una serie di fattori, quali l’impazienza tipica delle star, gli orari irregolari, il nervosismo di addetti stampa e manager, la pressione di fans e paparazzi, la probabile assunzione di stupefacenti o alcol nemici della sicurezza alla guida.