La favola del vino: Svegliati Italia!
Sughero = vino buono. O no? Dal nostro corrispondente ad Aruba, un invito.
Pubblicato il 30/01/2018
Le cronache ci raccontano che i produttori italiani non ne vogliono sapere dello screw cap, ovvero del tappo a vite e, se proprio devono adottarlo, lo utilizzano per i loro vini di fascia più bassa e per inviarlo in paesi ritenuti “marginali”, dove l’onta del tappo a vite non possa danneggiare più di tanto la loro onorabilità e la loro immagine.
L’adozione del tappo di sughero (datata più o meno al XVII secolo) fu una rivoluzione copernicana nel mondo del vino e grazie ad essa, finalmente, fu possibile raggiungere livelli accettabili di conservazione e trasporto e godere di un vino migliore anche in località distanti dai luoghi di produzione. Ma i secoli passano e anche le tecnologie più raffinate fanno emergere le loro debolezze, i loro lati negativi prima trascurati perché si era concentrati sul miglioramento epocale che avevano prodotto.
Secoli di storia alle spalle sono un grande vantaggio competitivo ma, spesso, anche un pesante fardello dal quale è difficile liberarsi. Così è accaduto che i primi ad adottare su vasta scala questa nuova tecnologia di tappatura siano stati i Paesi enologicamente emergenti (trovate una bottiglia neozelandese con il tappo di sughero, qualunque sia il suo prezzo...) traendone vantaggi enormi, sia in termini di miglioramento qualitativo che di soddisfazione del consumatore.
L’adozione del tappo di sughero (datata più o meno al XVII secolo) fu una rivoluzione copernicana nel mondo del vino e grazie ad essa, finalmente, fu possibile raggiungere livelli accettabili di conservazione e trasporto e godere di un vino migliore anche in località distanti dai luoghi di produzione. Ma i secoli passano e anche le tecnologie più raffinate fanno emergere le loro debolezze, i loro lati negativi prima trascurati perché si era concentrati sul miglioramento epocale che avevano prodotto.
Secoli di storia alle spalle sono un grande vantaggio competitivo ma, spesso, anche un pesante fardello dal quale è difficile liberarsi. Così è accaduto che i primi ad adottare su vasta scala questa nuova tecnologia di tappatura siano stati i Paesi enologicamente emergenti (trovate una bottiglia neozelandese con il tappo di sughero, qualunque sia il suo prezzo...) traendone vantaggi enormi, sia in termini di miglioramento qualitativo che di soddisfazione del consumatore.
Vivere in un luogo decentrato dove sugli scaffali ci sono più bottiglie provenienti dai Paesi del nuovo mondo che dal vecchio, talvolta aiuta ad aprire la mente e a guardare le cose in una prospettiva diversa. Il fenomeno che sto riscontrando è esattamente inverso al trend italiano: sempre più accade che i vini cileni e argentini dopo qualche anno di quasi esclusivo utilizzo dello screw cap, comincino ad avviare al mercato bottiglie con il tappo di sughero o apparentemente di sughero (conglomerato oppure plastica dal look simile al sughero). Per i loro vini migliori? Assolutamente no! Per i loro vini di fascia infima, quelli che veleggiano tra l’equivalente di 2 e 4 euro a bottiglia (allo scaffale, tasse incluse). Come si spiega il fenomeno? Semplicemente perché si rivolgono ad una clientela totalmente nuova al vino, digiuna di esperienza sia commerciale che gustativa, nel cui immaginario risiedono solo le bottiglie viste nei film (James Bond in testa) o in occasioni pubbliche importanti (festeggiamenti, celebrazioni, vittorie) dove sono sempre e immancabilmente serrate da un tappo di sughero.
Insomma, il nuovo mondo sta riservando il tappo di sughero (e i suoi simulacri) agli inesperti, ai parvenu e ai gonzi. E se il vino italiano non si dà una svegliata, finirà per produrre solo per loro.
Insomma, il nuovo mondo sta riservando il tappo di sughero (e i suoi simulacri) agli inesperti, ai parvenu e ai gonzi. E se il vino italiano non si dà una svegliata, finirà per produrre solo per loro.
foto © shutterstock