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Terroir, la comunicazione dell’unicità
Pubblicato il 12/04/2013
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Nel mondo del vino c’è una parola che viene considerata magica: terroir. Sta ad indicare un insieme di territorio, clima, sapienza del viticoltore. Terroir dunque. Quando si descrive un vino francese si parte sempre da lì, dal terroir. E noi? Da noi si ha quasi timore ad usare questa parola. Spesso ci limitiamo a descrivere il territorio, se e’ argilloso o calcareo, se c’è  tufo o ghiaia. E poi via alla descrizione dei profumi, e qui ognuno fa sfoggio del suo naso o della sua fantasia. Ma basta questo a descrivere un vino, ci fa innamorare un vino dove si sente più cardamono che ribes? Ci emoziona questo? Durante il BIBENDA Day 2013 abbiamo degustato, tra i tanti vini straordinari, anche il Beaune Greves vigne de l’Enfant Jesus 1998 di Domaine Bouchard Pere & Fils. E ci è stata raccontato la storia della vigna dell’Enfant Jesus, un clos rettangolare di 4 ettari all’interno di 38 ettari della denominazione Premier Cru Greves. E delle suore carmelitane che hanno coltivato questo piccolo vigneto per centinaia di anni, fino a quando gli è stato espropriato durante la Rivoluzione francese. Vigna che le suore avevano dedicato al bambino Luigi XIV, il futuro Re Sole, dopo che una delle consorelle aveva predetto la sua nascita al papà Luigi XIII, re di Francia. Bene, tutto bello, affascinante, suggestivo come il vino poi degustato. Ma quante di queste storie potremmo raccontare per le nostre vigne? Quante storie di suore e monaci, di nobili e imprenditori geniali che hanno prodotto vini che hanno allietato i palati di re e regine, principesse e di tanta tanta gente comune nel corso dei secoli. Ecco il punto: perché quando noi raccontiamo di una vigna non esaltiamo i nostri territori, le nostre zolle che nel pianeta hanno più storia di qualunque altra zolla?

E allora raccontiamo i nostri territori e quei vitigni che stanno lì da secoli tanto da essere considerati autoctoni. E i primi ad andare verso questa direzione devono essere innanzitutto i produttori. Esaltare quella vigna e quel vitigno autoctono. Raccontare la loro storia. E cercare con quelle viti di produrre un vino di altissima qualità, a costo di curare acino per acino. Creare un vino buono e capace di suscitare un’emozione. Anche perché quel vino poi trascinerà la produzione di tutta

l’azienda, di tutto il territorio. C’è poi una tendenza del mercato di cui bisogna tener conto. Di quello americano in particolare. E questo può sembrare paradossale perché il Paese che ha inventato la globalizzazione ora cerca i vini più locali possibili, il piccolo produttore, il vitigno più strano possibile. E l’Italia su questo terreno può essere supercompetitiva perché ha un patrimonio varietale che non ha uguali al mondo.

 

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