Anno dopo anno miete nuovi consensi in casa e all’estero. E visto che si sta facendo conoscere e apprezzare in giro, il Pignoletto si adopera per non diventare un senza patria che intitola etichette prodotte nei vigneti più disparati. Il successo, intanto, stuzzica la voglia di scalare l’Olimpo dei vini; va da sé che per raggiungere entrambi gli obiettivi occorre una strategia, un mordente efficace… Il Territorio, per esempio. Così, appena un anno fa’, la Provincia di Bologna ha aggiornato la cartografia dell’area del comune di Monteveglio. In quel momento una porzione delimitata di campagna, individuata come zona di produzione del Pinus Laeto già presso gli antichi romani, ha preso il nome di Pignoletto, anzi Località Pignoletto.
E per la serie la Storia insegna, questa modifica della segnaletica stradale ha inequivocabilmente agganciato al nome di un vitigno uno specifico territorio, perimetrando un’inalienabile identità geografica. Con funzioni di tutela, promozione e valorizzazione un mese fa è nato anche il Consorzio Regionale Pignoletto: al momento 7.000 soci fondatori, tra aziende vitivinicole e cantine cooperative emiliano-romagnole, e 8 milioni le bottiglie prodotte. Frizzante metodo Charmat, fermo e passito, il Pignoletto è uscito dai confini regionali per affermarsi anche altrove come vino di tutti i giorni, piacevole, duttile e non troppo impegnativo. Una definizione, questa, che ha tutta la fisionomia della classica arma a doppio taglio e che pertanto potrebbe cristallizzare le potenzialità del prodotto in una visione in fin dei conti riduttiva. È a questo punto che entrano in gioco quelli che dall’antica bacca bianca dell’Emilia Romagna vogliono tirare fuori qualcosa di più. Come? Di nuovo ancorandola al territorio, e non solo sulla carta.
Farle esprimere il terroir è un efficace assist verso il salto di qualità, sia sul piano formale che su quello sostanziale. Ancora meglio è sfuggire all’omologazione di un Pignoletto tendenzialmente universale nel colore, nei profumi e nel gusto. Per fare ciò alcuni hanno sposato la Biodinamica e Federico Orsi, titolare dell’azienda Vigneto san Vito, è uno di loro. Nel 2005 ha rilevato 15 ettari nei Colli Bolognesi, precisamente in zona Oliveto, nei pressi di Monteveglio. Una terra non vergine dal punto di vista vitivinicolo, bensì abituata a produrre vino da quasi 50 anni. Un anno dopo l’agronomo Leonello Anello trasformava questa realtà agricola convenzionale in biodinamica con l’intento di far tornare la terra alle origini e recuperare le sue antiche potenzialità espressive. Il Pignoletto qui è Frizzante sui lieviti con rifermentazione in bottiglia, fermo e Grappa. La versione ferma è quella del Docg Colli Bolognesi Classico Vigna del Grotto, dove il Pignoletto in purezza è coltivato a 200 metri sopra il livello del mare nelle vigne Grotto e Grottino, poco più di un ettaro e mezzo, con allevamento a cordone speronato e 3.300 ceppi a ettaro per una resa di 70 quintali.
Senza fertilizzanti e senza irrigazione queste viti di 15 anni sono vendemmiate a mano quando a inizio settembre gli acini arrivano a piena maturazione. La fermentazione è quella spontanea dei lieviti indigeni e avviene in botti di rovere di Slavonia, le stesse in cui l’80% della massa affina per 9 mesi sulle fecce senza aver subito filtrazioni, stabilizzazioni forzate e chiarifiche; il restante 20 per cento, invece, affina in vasche d’acciaio. Poi l’imbottigliamento e la sosta per altri 6 mesi prima di essere messo in commercio con circa 4.000 bottiglie e un centinaio di magnum. Il prezzo è intorno agli 11 euro. Può piacere o non piacere, ma uno così non è esattamente il vino che sta a tavola tutti i giorni. L’annata 2010 si mostra con un paglierino carico opalescente e si esprime con netti sentori minerali, agrumati ed erbacei, misti a note di frutta tropicale. Freschezza e sapidità segnano il sorso equilibrando la morbidezza e il calore dei 14 gradi alcolici. Persistente, chiude con una scia ammandorlata.