Così ama definirsi Gianpiero Bea, proprietario dell’Azienda vitivinicola Paolo Bea, sita fuori le mura dell’antica Montefalco. Un vecchio casale a gestione familiare, che dal ciglio della strada dà tutto tranne che l’idea di una cantina: se non fosse per un piccolo cartello di legno, l’azienda facilmente potrebbe passare inosservata! Gianpiero è un uomo dall’apparente semplicità, ma il suo talento di architetto e contadino, vignaiolo e padre di famiglia, non finisce mai di stupire. Con un fare per nulla pretenzioso ci accoglie nella nuova cantina, adicente il casale di famiglia, un progetto ideato da lui, ancora in fase di ultimi ritocchi, ma già funzionante a tutti gli effetti. Nel disegno si è pensato alla natura circostante, alla materia prima utilizzata per creare una struttura con impatto ambientale minimo, dove negli spazi interrati si usufruisce delle temperature naturali e di un sistema di umidificazione generato dalla terra stessa, incanalata sotto le botti di legno. Paolo è il padre ancora attivo in azienda: schivo e solitario, diffidente e di poche parole a lui è dedicata l’azienda, una delle poche in territorio umbro a conduzione biodinamica.
La controversa scelta aziendale, oggi oggetto d’interesse e divergenze da parte di esperti del mondo vinicolo, non è una fattore di moda o di tendenza: da generazioni i Bea si tramandano saperi, conoscenze, pratiche in vigna e scelte enologiche. La tradizione di vignaioli, infatti, è già attestata negli archivi storici del comune di Montefalco dal 1500 e solo questo bagaglio di conoscenze, acquisito nel corso di cinque secoli, regola l’operato sia in vigna che in cantina. Straordinaria l’attenzione ai minimi dettagli, dal costante monitoraggio dei vigneti, dove le pratiche di prevenzione escludono qualsiasi utilizzo della chimica di sintesi e l’uso di diserbanti, rivolgendosi piuttosto all’osservazione e alla comprensione dei ritmi naturali, per il mantenimento di quei sottili equilibri esistenti in natura che troppo facilmente abbiamo sacrificato in nome di produzioni standardizzate. Al ripristino di cicli biologici, dove ogni tassello ha una sua logica d’essere, si rivolge l’Associazione Vini Veri fondata da Giampiero e da un gruppo di vignaioli italiani nel 2004: uomini uniti dalla stessa volontà di voler fare vino seguendo logiche legate all’andamento stagionale, alla vigna e a interventi minimi di cantina. Una metodologia colturale inevitabilmente legata alla realizzazione di un prodotto sempre diverso, mai omologato, espressione di un territorio e di un’annata ben specifica.
Se è la ripetizione quello che cerchiamo, quasi sicuramente abbiamo sbagliato produttore. I vini che ci propone sono sempre diversi, soggetti ad andamenti climatici e a scelte in vigna che spesso possono anche rischiare di compromettere intere annate. L’anno 2013 per esempio verrà ricordato per gli effetti catastrofici della peronospora che ha compromesso gran parte del raccolto. È un rischio che il produttore deve affrontare con aggravi di spesa non indifferenti, lezioni di vita che Gianpiero ci racconta con piena coscienza e stupefacente serenità.
Questi sono parametri di valutazione impensabili di fronte al mercato mondiale del vino. La salvaguardia di un prodotto perfetto, l’immediatezza economica e la richiesta sempre più pressante di un consumatore esigente, hanno allontanano tutti da una coscienza comune per quel che concerne il delicatissimo equilibrio naturale e non desidero con questo fare pura retorica o ripercorrere a ritroso nostalgici retaggi di tradizioni passate, piuttosto mi sento in dovere di parlare di una consapevolezza che stimo: una presa di posizione sicuramente contro corrente, coraggiosa ed alternativa. Poi sta a noi, consumatori coscienti, scegliere cosa bere valutando un vino sotto altri punti di vista, molto probabilmente lontani dalle direttive comuni.
Per questa ragione ho scelto di parlare di Arboreus 2010, il Trebbiano Spoletino di casa Bea, frutto di vigne prefillosseriche fermentato con lieviti indigeni per 24 giorni a contatto con le bucce e lasciato sulle fecce per 220 giorni. La descrizione meticolosa dei processi di vinificazione ce li racconta proprio Gianpietro in etichetta, didascalicamente scritta a mano. Ho preferito parlare del Trebbiano Spoletino, piuttosto del blasonato Sagrantino, semplicemente perchè a Paolo riesce bene, nonostante gli interventi enologici ridotti a zero.
Alla mescita il colore ambra preannuncia la macerazione sulle bucce, mentre l’olfatto ampio e complesso alterna frutta matura, fiori gialli su uno sfondo di mineralità salmastra, mi intriga una leggera sensazione volatile espressione di un vino ricco di carattere e personalità. L’assaggio è avvolgente, pieno, c’è sostanza che progressivamente alterna freschezza e sapidità con un finale lungo e persistenza. Questo non è un vino per tutti, ma per coloro che hanno voglia di mettere in discussione gli stereotipi di valutazione è senz’altro un vino straordinario, dimostrazione tangibile che si può fare ottimo vino anche così: assistendo la natura e lasciando che ogni cosa prenda il suo corso.