Il mondo del vino si fa sempre più ricco di paesi emergenti e la vigna dimostra di poter dare vini di valore grazie alla mano sapiente di esperti del settore dediti a territori da sempre eletti alla viticoltura, ma purtroppo sacrificati nel corso dei secoli da politiche interne e dettami religiosi. Non stupisce dunque trovare la Turchia tra coloro che oggi si propongono tra i mercati del vino di qualità facendo sbalordire anche i più scettici.
Tra i regali dello scorso Natale ho trovato sotto l’albero Anfora Trio 2012, una curiosa bottiglia dell’azienda Pamukkale (in turco significa “Castello di cotone”), vicino la cittadina di Denizli, nella parte sud-ovest del Paese. La tenuta si fregia del nome dell’omonima cittadina famosa per un sito termale geograficamente ubicato nella regione interna Egea, nata dai numerosi movimenti tettonici che hanno caratterizzato la zona contribuendo ad un fenomeno naturale alquanto curioso.
L’area, infatti, anticamente conosciuta come Hierapolis, ricopre una superficie completamente bianca composta di calcare e traventino. Fattori climatici particolari contribuiscono a trasformare la fuoriuscita dell’acqua in una sorta di cascata bianca di carbonato di calcio che prende appunto le forme di una “fortezza bianca di cotone”. Le bellezze naturali di questo luogo sono state riconosciute come patrimonio universale dell’umanità dall’Unesco, dopo gli scempi edilizi per soddisfare un turismo di massa.
Distribuita su 65 ettari vitati, l’azienda Pamukkale nasce nei primi anni sessanta ad opera di Fevzi Tokat, padre di quattro figli. Nel 1972, il più giovane di essi, Yasin Tokat, decide di farsi carico dell’attività paterna contribuendo con gli studi di viticoltura a tracciare le basi della vitivinicoltura di pregio della Turchia moderna. Il clima continentale di questa zona interna, vede inverni freddi con estati caratterizzate da escursioni termiche importanti. I terreni sono ricchi di calcare, ciottoli e argilla. I vigneti si estendo lungo l’altopiano di Guney tra i 700-850 metri di altitudine in condizione climatiche che vengono paragonate alla Napa Valley, ma con terreni che ricordano Bordeaux. Una combinazione pedoclimatica non trascurabile che mi regala questo primo assaggio di produzione turca. Rubino-porpora, con unghia trasparente, un colore che esprime gioventù anticipando un olfatto ricco di frutto scuro intriso di floreale. Emergono generose le note di ciliegia amara, cassis, il ribes nero e il caprifoglio, in uno scenario che alterna sentori primari ricchi, su scia minerale. Nessuna traccia di legno, il vino fa solo acciaio imponendo vitigno e territorio, come unici protagonisti. Shiraz e Cabernet Sauvignon supportano la varietà locale Kale?ik Karasi conosciuta per un tannino vellutato che non tradisce alla gustativa regalando un vino di grande piacevolezza. Le fasi gustative scansionano una progressione composta, inizialmente data da una decisa freschezza che a seguire lascia spazio alla componente tannica sviluppando il vino ai lati della bocca per poi riportarlo verticalmente sul finale pervaso di frutto e fiori. Continuo a tornare sul bicchiere incuriosita c’è personalità, carattere e unicità. Sono convinta che quanto un vino invita al sorso ripetuto è un vino che ha raggiunto il suo goal: farsi bere senza stancare. La varietà Kale?ik Karasi, ovvero “nero di Kale?ik” ha origine nel distretto di Kale?ik vicino Ankara nella Turchia centrale, oggi tra le tipologie di uva più importanti del centro dell’Anatolia. Sembra essere una varietà antichissima originaria di queste zone sin dai tempi degli Ittiti (1650-1200 a.c.). Dal grappolo serrato e buccia spessa, si presta bene alla vinificazione in acciaio. Offre vini da consumarsi giovani, ma non esiterei a lasciare l’annata 2012 qualche anno in più. La componente fruttata ricorda il Gamay, ma su un registro più scuro e profondo. Destinata all’estinzione, dopo il flagello fillosserico, intorno alla fine degli ’70 e ‘80 furono recuperati tre cloni principali. Oggi si coltivata in svariate aree della Turchia esprimendo però il meglio di sé in zone sopraelevate e fresche. Sono convinta che presto ne sentiremo parlare anche in Italia, Paese spesso restio al confronto con i paesi emergenti.