Come ho avuto modo di dire in altri articoli, la Francia è piena di vini poco conosciuti al di fuori dei confini nazionali, ma spesso di qualità insospettabilmente elevata. Sono vini che fanno esclamare l’appassionato che per la prima volta li assaggi: “Ma perché dei vini d’Oltralpe si conoscono solo Bordeaux, Borgogna e Champagne?”. Uno degli esempi più evidenti di questa situazione è quello della Aoc Palette. Come spesso accade, il problema di questa denominazione è quello di trovarsi in una Regione, la Provenza, ove si fa una gran quantità di vino dedicato al consumo occasionale da parte dei turisti, “irretiti” dalla moda degli onnipresenti rosé. I produttori che ricercano la qualità, e che sono di conseguenza costretti ad un livello di prezzi più elevato della media, rischiano dunque di trovarsi spiazzati.
Per fortuna, tuttavia, nell’Aoc Palette, riconosciuta nel 1948, una serie di fattori hanno creato un vino di culto tra i veri appassionati. Ci troviamo ad est della bella cittadina di Aix en Provence, tra le dolci colline dell’entroterra provenzale. L’area vitata è minuscola: circa 48 ettari, nei quali si coltivano vitigni a bacca rossa (Grenache, Mourvedre, Syrah, Cinsaut, più altre 11 varietà) e bacca bianca (Clairette, Bourboulenc, Picardin ed altre 13), per una produzione che comprende vini rossi, vini bianchi e vini rosé. Il numero enorme di vitigni ammessi potrebbe far storcere il naso a coloro che sono abituati al rigore dei monovitigno borgognoni, ma vorrei ricordare che anche in un vino di elevatissima qualità e fama, come lo Chateauneuf du Pape, ben 13 vitigni possono entrare nel blend.
Dicevo della fortuna di questa Appellation, che come accade in altri casi è legata alla presenza di un produttore così rappresentativo, da essere con essa identificato: Château Simone. Proprietà dal 1830 della famiglia Rougier, il magnifico château è in grado di rivaleggiare, per bellezza architettonica, con i più celebri omologhi bordolesi, con il vantaggio peraltro di avere dei magnifici giardini ove la lavanda e la macchia mediterranea, uniti alla luce calda del sud della Francia, evocano alla mente i paesaggi dipinti da Renoir, Matisse e Cezanne. Ma basta scendere nelle cantine cinquecentesche per immergersi pienamente nello spirito del vino. Circa tre quarti delle uve dell’appellation vengono da vigneti di proprietà dello château, e vengono qui trasformate in vini rossi, bianchi e rosati. Le vigne, un mosaico di minuscole parcelle, comprendono viti impiantate dalla famiglia Rougier subito dopo la crisi della fillossera, che oggi hanno oltre 110 anni. Una degustazione conferma che siamo di fronte a vini unici, per certi aspetti spiazzanti, comunque notevoli.
Il rosso, da vigne di oltre 50 anni di età, è dovuto in maggioranza all’apporto di Grenache e Mourvedre. Affinato in legno 20 mesi dopo la vinificazione, è un vino robusto, dal carattere nettamente selvatico, ma insospettabilmente austero per un vino meridionale. Ha nettissimi richiami di bacche rosse, macchia mediterranea e terriccio, con fine speziatura. Forse il meno originale dei prodotti dello château, ma egualmente convincente e con lunghe potenzialità di invecchiamento, da abbinare, perché no, a formaggi di media stagionatura o più classicamente al carré d’agnello alla provenzale. Trovo molto più interessante il rosé, dagli stessi vitigni del rosso con breve macerazione sulle bucce e successivo affinamento in legno. Non è certamente il rosé che ci si aspetterebbe in Provenza, e mi ricorda piuttosto, per certi aspetti, il magnifico cerasuolo di Valentini: Jancis Robinson, la famosa Master of Wine, lo ha paragonato ad un claret vecchio stile, con nuances di carne arrosto e decisa mineralità, che sostiene bene le note più schiettamente fruttate di fragola e ribes. Invecchia bene, e già questa, per un rosato, è una notizia. Non lo vedrei sul pesce, a meno non si preveda una ricetta piuttosto elaborata e ricca di salse (come nel caso di medaglioni di branzino selvaggio in salsa al pepe rosa) ma sarà fantastico su un coniglio alle erbe aromatiche. Infine, last but not certainly least, il bianco, sicuramente il vino più famoso. Ottenuto dalle vigne più vecchie, alcune delle quali ultracentenarie, da uve in grande prevalenza clairette, ed affinato in legno per ben due anni e mezzo, è un nettare spiazzante, che può lasciar sconcertati per le spiccate note terziarie. Un 1997, assaggiato l’anno scorso, aveva carattere mielato, con rimandi anche alla cera d’api, alla camomilla, alla pietra focaia, allo zenzero ed alla scorza di cedro, ed in bocca era talmente giovanile da far presagire una ulteriore lunga potenzialità evolutiva (so di fortunati che hanno degustato, con grande soddisfazione, bottiglie degli anni ’50). Qui l’accoppiamento diviene difficile, tanto da indurmi a suggerirlo, più che con un cibo, abbinato ad un tramonto nella tarda estate provenzale. Sarà certamente uno dei momenti della vita, rari in assoluto ma in fondo più comuni per noi amanti del vino, che ci si porterà dietro a lungo come un prezioso tesoro.