Mi sono sempre chiesta, sulla longevità di un Metodo Classico, quanto in effetti questo splendido vino, dotato di tutta la magia di stampo francese, possa durare nel tempo dopo il fatidico dégorgement. Ovviamente ci sono esempi dei cugini d’oltralpe che danno ampia risposta alla mia domanda, ma quando si tratta di un prodotto italiano proveniente da zone quasi sconosciute agli amanti delle “bollicine”, allora è legittimo porsi il quesito e cedere il passo al vino per farlo parlare da sé. Per non lasciare adito ai fraintendimenti, uno spumante metodo classico si avvale della rifermentazione in bottiglia indotta, aggiungendo lieviti selezionati e zucchero di canna (liquer de tirage). La metabolizzazione dello zucchero da parte dei lieviti comporta la creazione di etanolo e anidride carbonica (prise de mousse), fino a quando lo zucchero addizionato si esaurisce lasciando spazio all’autolisi, ossia a quella lenta fase di degradazione dei lieviti per opera di sostanze enzimatiche che vanno a sostituirsi agli agenti vitali della fermentazione. L’azione di questi principi catalizzanti necessita di essere prolungata nel tempo, perché non solo il vino si arricchisce di struttura e corpo, ma contribuisce a donare un bouquet complesso e terziarizzato e un perlage delicatissimo composto da numerose bollicine, molto sottili e fini. Fin tanto che le particelle flocculanti restano all’interno della bottiglia, il vino rimane protetto dall’azione impervia dell’ossigeno. I sedimenti dei lieviti, dunque, costituiscono una naturale protezione, inibendo precoci invecchiamenti del vino. Nelle bottiglie di spumante metodo classico italiano, sul retro etichetta troviamo la data del dégorgement, ossia di quando i sedimenti sono stati estratti dalla bottiglia, presentando un vino limpido e cristallino privo di spiacevoli sospensioni. A questo punto, dalla data indicata, si raccomanda di consumare il vino entro i due anni per ottimizzarne la fruizione. Tuttavia, se alla base di un vino spumante rifermentato in bottiglia abbiamo una materia prima di qualità, la sopradetta regola dei due anni lascia molto a desiderare, rivelandosi alquanto generica e poco attendibile. La prova tangibile mi è stata offerta qualche giorno fa durante una degustazione con un gruppo di amici. Per inaugurare la serata iniziamo con un Brut della zona: la classica bottiglia dimenticata in cantina e riportata alla luce dopo ventotto anni dalla sua produzione. Un millesimo umbro delle terre orvietane, famose storicamente per un vino fermo abboccato, ma non certo per gli spumanti, che tutta al più mantengono una tradizione prettamente nordica. L’annata riportata a fronte è la 1986 dell’azienda Decugnano dei Barbi: una famiglia di origini bresciane (non a caso!) pionieri della rifermentazione in bottiglia in ambito orvietano.
In grotte di origini remote, scavate nei terreni pliocenici di matrice marina, i Barbi producono, dalla fine degli anni settanta, un metodo classico tutto artigianale. Il vino riposa minimo quattro anni a contatto con i lieviti, a temperatura costante, in ambienti naturalmente termoregolati che creano le condizioni ideali per una lenta rifermentazione in bottiglia. Il remuage è manuale, così come il dégorgement, sempre all’interno delle magiche grotte intrise di ricordi medioevali quando i monaci presenti a Decugnano producevano vino per il clero di Orvieto. Ovviamente di fronte a un millesimo del 1986 nessuno scommette nulla. Sicuramente il vino non ha retto il tempo, considerando i quattro anni di riposo questo è uno spumante “degorgiato” nel ’90, quindi ventiquattro anni orsono! Ebbene dobbiamo tutti ricrederci da un pregiudizio ingiustificato.
Il colore oro rivela una sostanza liquida in piena forma, dove piccole bollicine cercano di farsi strada, a fatica confesso, ma in verità non è il perlage che sto cercando. Luminoso, brillante e seducente, al naso chiede tempo e superate le prime note di ridotto, tipiche di un vino rimasto chiuso allungo, si aprono sentori di accesa fragranza, accompagnate da piacevolissime note ossidative, che spesso caratterizzano volutamente i migliori Champagne: la nocciola e la frutta secca, la nota esotica matura con anche un accenno di fiori macerati: il vino è vivo e non dà nessun segno di essersi consumato nel tempo. La sorpresa grande arriva alla gustativa, quando l’acidità, in forma smagliante, avvolge il palato e le delicatissime bollicine spumeggiano come seta lasciando in bocca una piacevole sensazione sapida, lunga e persistente.
Che dire: rimaniamo tutti molto sorpresi, possibile che un metodo classico umbro abbia potuto reggere così a lungo nel tempo? Eppure non ci sono dubbi, questo era un vino che sarebbe durato ancora, a prova che quella sorta di eresia avanzata dai Barbi nei primi anni settanta, di fare un metodo classico in terre umbre, non era affatto la pazzia di un bresciano sognatore.
Ho scritto più volte per Orvieto, rivendicando un territorio troppo spesso sottovalutato e non compreso, nonostante sia intriso di storia e cultura millenaria. Oggi ribadisco il mio pensiero di contro un’immagine della “rupe” fatta di milioni di bottiglie senza volto, vendute a poche lire nei supermercati mondiali. Le degustazioni come queste rivelano tutt’altro che un vino da discount, questi sono esempi che fanno riflettere sulle potenzialità di un luogo dotato di tutti i tasselli necessari per creare un concetto di terroir concreto.