Nel mondo della critica d’arte convivono due metodologie d’approccio analitico: l’iconografia, dal greco eikonographía eiko’n –ónos “immagine” e –grafía “scrivere”, tecnica puramente descrittiva dell’icona, e l’iconologia, dal greco eiko’n –ónos e –logia, metodo d’analisi rivolto al significato intrinseco dell’icona. Solo verso la fine degli anni Sessanta l’iconologia approda in Italia, grazie al contributo di Giulio Carlo Argan, il primo storico dell’arte italiana a riconoscere l’importanza di questa rivoluzionaria metodologia d’impronta tedesca.
Spesso di fronte ad un vino mi pongo lo stesso quesito. Posso analizzare il liquido nel mio bicchiere oggettivamente osservando, annusando, degustando. Il mio giudizio critico è prettamente improntato sui sensi che, come un detective alla ricerca di indizi, analizza la scena del crimine senza trascurare nulla. Posso anche andare oltre. Se a ciò che vedo, odoro e gusto, aggiungo un significato intrinseco, allora non ho solo fatto un’analisi oggettiva del vino, ma un’analisi iconologica. Ovvero sono entrata nel significato profondo del vino, contestualizzando la mia ricerca. Ogni opera d’arte appartiene ad un suo tempo, come la musica, la poesia. Sono forme d’espressione unica, ontologica, marcatori epocali di gusti e costumi, di mode e tendenze. Anche il vino sa esprimersi così: da millenni ci racconta di sé accompagnando l’uomo nel suo cammino di conoscenza e crescita intellettuale. Il vino ci rappresenta più di quanto possiamo immaginare, ci racconta di produttori, di vigne e vitigni, di conformazioni geologiche e condizioni climatiche, tecniche di vinificazione e gusto. Ci narra di usi e costumi di terre lontane, di scelte generazionali. Un bicchiere di vino può farsi portavoce di un’intera cultura al di là dei confini geografici.
Allora i nostri sensi non sono più sufficienti a raccontare il contenuto, o per lo meno non possono rimanere fini a se stessi. Per capire un vino fino in fondo devo scavare dentro la materia, devo contestualizzare tutti le sue componenti, in un filo logico e coerente, che unisce come in una grande tela, le materie più svariate in un rapporto multidisciplinare. Questo è il compito del critico d’arte: mettere insieme le due metodologie per esaltare il valore storico, artistico e culturale di un’opera. Ma questo è anche il ruolo del comunicatore del vino, colui che si spoglia dei gusti propri e osserva dentro il bicchiere guardando oltre ciò che vede. È l’arbitro della qualità, è il profondo conoscitore della materia, l’esperto della tecnica, egli sa riconoscere gli stili e distinguere tra gli “accademici” e i veri creatori, le contraffazioni e le espressioni territoriali. È un osservatore attento, che ascolta tutte le voci e non trascura mai nulla, ma soprattutto è colui che contestualizza il vino in un ampio scenario di conoscenze. Per individuare un grande vino dobbiamo ricercare la sua natura immanente, quella forza che lo ha creato e che lo rende vivo, presente nel tempo. Come l’oggetto d’arte ci trasmette emozioni e non smette mai di stupirci, in un continuo susseguirsi di sensazioni, anche il vino sa parlare di sé permettendoci, con un passo in più rispetto all’arte, di “degustare” una parte di storia, di farla rivivere dentro di noi come sensazione tangibile.
Credo che nulla, al di là del vino, sia in grado di far questo e allora all’arte del vino dedichiamo la nostra missione per svelarne le intrinseche e straordinarie bellezze.
L’immagine di copertina dell’articolo raffigura l’opera “Wine Dance” di Chris Jeanguenat
L’immagine in alto rappresenta l’opera “Sommelier” di Will Bullas
L’immagine in basso è l’olio su tela “Rose e vino” di Leonid Afremov