Mi occupo di accoglienza in cantina da molti anni e spesso rifletto sul perché ancora esitiamo a credere che ricevere ospiti sia un aspetto secondario del fare vino. Circondati da scenari paesaggistici che spaziano dalla montagna al mare, dalla collina ai laghi, da una viticoltura eroica, ai suoli lavici dei vulcani, godiamo di cantine site nei luoghi più ambiti, con tradizioni secolari che ci riportano indietro nel tempo, quando il vino serviva a inebriare le menti più sagge, nei simposi greci ed etruschi, avvolto nel mistero sacro della trasformazione da succo d’uva a nettare per gli dei.
Il mondo ci guarda con ammirazione e stupore, ambendo all’Italia come meta must, quella da visitare una volta nella vita, non solo per il nostro patrimonio storico-artistico, ma anche e soprattutto per la cultura culinaria che da sempre accompagna la tradizione enoica. Nessuna cucina al mondo è più imitata di quella italiana, la ricerca della materia prima tramandata da generazioni dedite al concetto di offrire il meglio, perché il mangiare sano costituisce l’essenza del nostro essere. Ed al principio di genuino affianchiamo da sempre il vino del luogo, quello che sposa al meglio i piatti della tradizione, offrendo una diversificazione regionale che ci fa campioni al mondo per il numero di vitigni locali registrati nel Paese.
Eppure, nonostante questo enorme patrimonio, spesso esitiamo a crederci, incapaci di imporci negli scenari internazionali con la dovuta forza, dettando un marchio, quello del made in Italy, che incorpori in sé un concetto di territorialità unico, scevro di frammentazioni e provincialismo. In questo scenario le cantine riflettono a pieno il nostro essere incapaci di fare squadra e il non credere alle potenzialità che ci caratterizzano, registrando solo alcuni casi sparsi, dove invece si è capito che senza l’unione non c’è la forza. Ricordo il viaggio in Franciacorta, durante il BIBENDA Executive Wine Master, lo scorso autunno, quando e rimasi profondamente colpita trovandomi a fare un’orizzontale di Franciacorta in Ca’ del Bosco con Maurizio Zanella seduto tra i banchi, con noi, a degustare i vini di altri produttori suoi possibili competitor. Osservai con stupore la voglia di trasmetterci un concetto di integrazione che fosse efficace e profondo e che potesse restare impresso. Non mancarono di lasciare un segno, impartendoci una grande lezione da portare a casa propria e metterla in atto. Ma non finì qui: il concetto di territorialità non nasceva come idea fine a se stessa, ma profondamente legata al principio di accoglienza. Per fare territorio serve la volontà di lavorare insieme, ma per lavorare insieme servono gli spazi, quei luoghi che appunto accolgono i visitatori curiosi di conoscere. Per un pubblico specializzato o neofita che sia, la cantina necessita di aree di degustazione per educare e fare cultura, divulgando un marchio aziendale, ma soprattutto un territorio che trasla da una zona ben specifica ad una concetto di nazione unita nella sua diversità.
Quale occasione migliore per parlare di vino dove il vino si produce, camminando tra i vigneti, toccando la terra che ospita la vigna, osservando il ciclo vegetativo che dalla fase dormiente dell’inverno, come d’incanto si risveglia in quello che viene chiamato “il pianto della vigna”, quando la terra, scaldata dal sole, manda segnali alla pianta e piccole lacrime di linfa fuoriescono dallo sperone che sembra legno morto. Fare lezione in cantina significa capire il lavoro profondo che circonda una bottiglia, quella che spesso non riusciamo ad apprezzare con le dovute cure, lamentando prezzi troppo alti.
Tutto sommato non è colpa del consumatore, le nostre tasche soffrono quando dobbiamo pagare incapaci di giustificare la nostra spesa, la colpa sta nel produttore che spesso quella bottiglia l’ha messa in commercio senza dire nulla, lasciando che fosse confusa tra le tante altre bottiglie, nella gara spietata di prezzi, mode e tendenze. Il vino va raccontato, spiegato, analizzato e calato in un contesto che lo rende unico per svariati fattori che i francesi chiamano terroir e che la cantina può raccontare al meglio. Relegare l’accoglienza ad un aspetto secondario della produzione, significare negare al prodotto la possibilità di essere imposto con il dovuto rispetto e valore, giustificando anche un prezzo di mercato più alto che il pubblico è disposto a pagare, solo se educato a capire con personale ed ambienti specializzati dovutamente dediti a fare cultura di vino: la vera cultura che esce dagli ettari vitati dell’azienda e che guarda alla Denominazione d’Origine e al territorio come un unicum irripetibile. La speranza è di vedere, dunque, sempre più produttori, enti pubblici e consorzi impegnati a non trascurare questo aspetto chiave del fare vino e a investire per la promozione di prodotti rari ed altamente qualitativi, creando ambienti aperti al pubblico, organizzando degustazioni guidate che parlino nell’insieme di un’identità, avvalendosi dell’occhio esperto di professionisti specializzati che conoscono la materia, la sanno raccontare per farla vivere nel suo valore intrinseco.