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Intervista a Marco Simonit, il “medico della vite”
Pubblicato il 24/10/2014
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Se esistesse una laurea in “medicina delle vite”, la corona d’alloro l’avrebbe conquistata da tempo. E sì, perché Marco Simonit (nella foto di apertura) conosciuto in tutto il mondo come il “preparatore d’uva” è l’uomo che, dati alla mano, assicura da più di venti anni una vita lunga e sana alle piante. Un professionista che ha restituito alla vite il suo primigenio status di liana, assecondando attraverso la potatura la sua naturale attitudine alla ramificazione. E che, con il metodo “Simonit & Sirch”, ideato con il suo socio Pierpaolo, ha conquistato la viticoltura francese e non solo. E non è poco. Soprattutto in un momento in cui l’orgoglio del Bel Paese ha sempre di più bisogno di una robusta dose di ossigeno. Anche perché, tra le vigne italiane, come avverte Simonit c’è ancora molto da fare.

Château Giscours, Château Pichon Longueville Comtesse de Lalande, Domaine Huet e quattro aziende del gruppo Roederer, prima fra tutte, Cristal. Sono solo alcune delle maison d’oltralpe che avete conquistato con il metodo “Simonit & Sirch”, ma il suo viaggio parte prima…
La Francia è stato sicuramente un punto di svolta. Grazie all’Università di Bordeaux e all’Institut des Sciences de la vigne et du vin del Professor Dubourdieu abbiamo potuto mettere in pratica il nostro know how. Un immenso bagaglio di conoscenze acquisito in Friuli, in Austria e in Germania. Per capire la morfologia della pianta bisogna osservare, analizzare, capire come nel medio e lungo periodo può reagire a differenti situazioni climatiche. Viaggiando dalla Stiria al Burgenland fino ad arrivare al confine con l’Ungheria ci siamo misurati con condizioni climatiche profondamente diversificate che hanno consentito di osservare i diversi comportamenti assunti da una medesima varietà. Emblematico è il comportamento del Sauvignon, un camaleonte che muta pelle a seconda del clima e che richiede quindi interventi di potatura completamente diversi. Adattare le tecniche all’ambiente è la nostra parola d’ordine.

Il vostro successo all’estero è ormai indiscusso. E in Italia?
Gravner, Schiopetto, Venica in Friuli hanno creduto subito in noi, ma anche Gaia, Bellavista, Ferrari, Zonin, Planeta e Tasca d’Almerita. E altre Aziende che inizialmente ci guardavano con sospetto, ora ci hanno affidato alcune delle vigne dove producono i loro vini più importanti. Ma l’Italia è ancora a macchia di leopardo. Se alcune regioni come Toscana, Piemonte Lombardia Trentino Alto Adige sono notevolmente cresciute perché hanno continuato ad investire in vigna, di contro altre come la Puglia, la Sardegna e la Sicilia, dove peraltro abbiamo lavorato molto, segnano il passo.

Quindi il principio che prevenire sia meglio che curare non è ancora entrato nella cultura vitivinicola italiana?
Non totalmente. In Italia si seguono molto le tendenze. In questo momento l’interesse dei produttori è concentrato verso il biologico e il biodinamico. Peccato che questo non significhi tutelare realmente la salute della pianta. Bisogna dedicare tempo e investire sulle tecniche in vigna. Potare bene, saper piantare un vigneto. Perché se così non sarà ci ritroveremo a rinnovare le piante ogni 25-30 anni e a produrre vini che non esprimono la personalità del territorio. La longevità dei vigneti la devi conquistare. Il traguardo dei 50-60 anni è il frutto di un lavoro costante.

Quale invito rivolgerebbe ai produttori?
Investire in ricerca e sperimentazioni sul territorio, coinvolgendo tutti gli attori che operano in questo campo. In Italia abbiamo ricercatori e docenti universitari che possono offrire contributi importanti. Questo si traduce nell’acquisizione di dati e quindi di conoscenza per migliorare la qualità della vite, quindi dei vini. Vuol dire creare cultura non tendenza. Un esempio eloquente è quanto è avvenuto in Friuli. Quando è stato chiuso il corso di enologia che la Facoltà di agraria di Udine aveva aperto a Cormons, nessuno ha reagito. Non hanno capito che attrarre studenti provenienti da tutto il mondo avrebbe consentito uno scambio di informazioni vitale per dare impulso a progetti di ricerca sul territorio. Per dimostrare che inerbire un vigneto piuttosto che lavorare la terra ha delle ripercussioni sulla qualità delle uve. È questo che manca in Italia. La condivisione del sapere. Il confronto è vitale per dare impulso al settore. Gli svizzeri in questo sono avanti rispetto a noi. Ricercatori e produttori lavorano in stretta sinergia acquisendo informazioni che gli consentono di evolvere. Noi corriamo il rischio di appiattirci.

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