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Angelo Gaja e il Genius Loci
Pubblicato il 15/01/2016
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Gli studenti del vino incontrano Angelo Gaja. È una splendida mattina e siamo a Barbaresco, nel regno di Gaja, nel mito. La sala, dove avverrà anche la degustazione, è di eleganza moderna ed essenziale, affacciata su di un panorama superbo, come lo sono le Langhe. Lui, Angelo, arriva puntuale, elegante in giacca e pullover scuri, veloce, scattante, che non perde tempo in convenevoli ed inizia la sua conferenza agli allievi del Terzo BIBENDA Executive Wine Master. Un grande schermo alle sue spalle annuncia: Genius Loci. Per parlare agli studenti del vino, Gaja sceglie di raccontare la storia di questa terra e come è diventata il prestigioso territorio che è oggi attraverso una rassegna di uomini di Langa (Langhe in piemontese), tra cui politici, imprenditori, amministratori, scrittori, vignaioli. È subito evidente come Gaja ne sia orgoglioso: la Langa è bella e ricca, ci si vive bene, la ricchezza viene dall’agricoltura, dall’industria, dal turismo. Introduce il concetto di Genius Loci, l’idea di essenza interiore di un luogo, lo spirito di quel singolo luogo ma anche la sua ricchezza intrinseca, l’elemento che lo identifica e lo rende unico. Ma Gaja è chiaro fin da subito: il Genius Loci non basta - dice - a fare grande una terra, esso va valorizzato dall’uomo, altrimenti è inutile! Lo dice con fervore e lo ripeterà, con il suo modo efficace di esprimersi, con quel suo deciso gesto di “affettare” l’aria con il dito indice. Gaja sceglie così una serie di personaggi, dall’Italia preunitaria ad oggi, evidenziando di ognuno il particolare tributo alle Langhe. Sullo schermo alle sue spalle passano i ritratti di volti noti e meno noti: si parte con Camillo Benso Conte di Cavour e Giulio Einaudi, poi Domizio Cavazza, Cesare Pavese e Beppe Fenoglio, Giacomo Morra e Arnaldo Rivera, Renato Ratti, Bruno Giacosa ed Aldo Conterno, per finire con Carlo Petrini e Luigi Veronelli. Tutti uomini che hanno saputo valorizzare il Genius Loci di Langa, che hanno intuito il grande potenziale di questa particolarissima terra e hanno lavorato per migliorare le condizioni di vita dei langaroli fino a renderla, oggi, un modello di efficienza e la patria del vino italiano più famoso nel mondo (non me ne vorranno in Toscana). Tralasciando i grandi nomi citati da Gaja, qui ricorderemo quelli meno noti: Domizio Cavazza, emiliano, nel 1881, a soli 26 anni, venne chiamato dal Ministero dell’Agricoltura a fondare la Scuola Enologica di Alba, che diresse per dieci anni; nel 1895 fondò la cantina cooperativa, la prima cantina sociale d’Italia. 

Beppe Fenoglio e Cesare Pavese furono i primi a portare le Langhe nella letteratura. Giacomo Morra era il proprietario del ristorante “Savona” ad Alba; fu lui ad intuire la forza trainante del tartufo per la gastronomia albese e ne costruì un mito inventando la Fiera del Tartufo nel 1930, anche questa oggi famosa nel mondo. Gaja qui tiene a sottolineare una capacità tutta albese: anche in altre zone d’Italia, dice, si trovano ottimi tartufi, che però non sono stati valorizzati come quello di Alba. Arnaldo Rivera creò nel 1958 la Cantina Sociale Terre del Barolo e la mantenne prosperosa, guidandola fino alla sua morte, avvenuta nel 1987. Maestro elementare e sindaco di Castiglione Falletto, antepose gli interessi sociali a tutto, facendo del progresso e del riscatto della propria gente il suo fine ultimo. Renato Ratti è, per Gaja, “l’uomo più importante in assoluto del vino albese” e precisa: “importante è colui che svolge attività a beneficio anche degli altri”. E Ratti fu questo tipo di uomo. A 24 anni divenne direttore tecnico della Cinzano Brasile ed in quel paese lo ricordano ancora per aver impiantato vigneti in una zona desertica, che arriverà a produrre due raccolti all’anno. Tornato in Italia, divenne produttore di Barolo, nel contempo dedicandosi a studi e pubblicazioni di storia e cultura enologica, osservando le dinamiche del settore e, partendo dal modello francese di valorizzazione del vino e del suo territorio, cercando di trasferire questo modello in Langa. Fu presidente del Consorzio del Barolo e del Barbaresco e del Consorzio dell’Asti Spumante ma va ricordato anche per aver stilato la prima mappa dei grandi cru di Langa, operando di fatto una rivoluzione qualitativa senza precedenti e, ancora, per essere stato il primo ad individuare una particolare trattativa di vendita delle uve moscato. Insomma, un antesignano. Di Veronelli Gaja evidenzia lo sforzo, intorno alla metà degli anni ’60, di cercare di spronare i produttori a valorizzare il vigneto, dando quindi una sferzata al concetto di cru. I produttori iniziarono a vinificare per vigne, man mano tralasciando la precedente tendenza a vinificare mescolando tutte le uve. Un punto di svolta epocale. Ascoltando Gaja, il suo discorso sempre teso, preciso, che non perde mai il ritmo né il filo, capisci il motivo del suo successo. Ma Gaja non racconta soltanto; lui vuole stimolare la sua platea, lanciare un messaggio a chi lo voglia cogliere, un messaggio dalla doppia chiave di lettura: da una parte, lo sprone, l’invito, l’avviso anzi, ad incitare l’uomo ad usare la sua intelligenza per ottenere il meglio da una natura ricca. Anche quando quella natura sembra non essere poi così magnanima. Gaja infatti cita l’espressione “la sfortuna in favore”, ancora una volta mostrando le capacità dell’uomo di volgere a proprio vantaggio anche una natura non adatta, come nel caso delle Langhe, ad altri tipi di colture essenziali, come il grano o il mais per esempio e, per questo motivo, una terra storicamente a lungo povera. Dall’altra, l’orgoglio di Gaja di far parte di una stirpe, quella langarola, di gente capace, caparbia, lungimirante, di viticoltori e vignaioli che hanno reso nobile il nebbiolo, un vitigno difficile da trattare, traendone vini apprezzati in tutto il mondo, vini italiani che, insieme ad alcuni toscani, competono oggi con i più grandi vini del mondo, anzi, che sono annoverati fra i più grandi vini del mondo. Gaja ovviamente non parla di sé. Ma noi sappiamo che cosa ha fatto, non solo per il Barbaresco ma per il nome del vino italiano nel mondo. Chi studia il vino sa che, nei primi sessant’anni del Novecento, erano molti i produttori di Barbaresco che “accettarono” il rapporto di leggera sudditanza che portò molti a parlare del Barbaresco come del fratello minore del Barolo. Poi venne Gaja. E le cose non furono più le stesse.

Angelo Gaja ci saluta lasciandoci con la consapevolezza che, senza questi uomini e senza Giulia Colbert Marchesa Falletti, oggi sarebbero state altre Langhe. Noi sappiamo anche che, senza Angelo Gaja, le Langhe sarebbero probabilmente rimaste in Langa. 

Gaja 
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