Pochi giorni fa le agenzie di stampa hanno riportato la conferma delle radici meridionali del Sangiovese, il Sangue di Giove. Marica Gasparro, ricercatrice del Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea) si aggiudica il Premio internazionale Brunello di Montalcino riservato ai giovani ricercatori, grazie ai risultati raggiunti con i suoi studi ampelografici, storici e alla caratterizzazione molecolare. I genitori dell’importante e diffusissimo vitigno italiano sono finalmente identificati nel Ciliegiolo e nel Negro Dolce di Puglia, un’antica varietà autoctona praticamente scomparsa. In passato altre ricerche (CRA – UTV, Centro di Ricerche in Agricoltura ed ex Istituto Superiore di Viticoltura di Conegliano) avevano evidenziato che la Basilicata è stata nell’antichità l’epicentro dei traffici mediterranei e crocevia dei flussi migratori che provenivano dai Balcani e che, attraverso la Paucezia (l’attuale Puglia) e Taranto, risalivano verso Paestum fino a intercettare la cultura etrusca e il bacino occidentale. Il Vouillamoz identifica invece l’origine del Sangiovese nell’incrocio tra il Ciliegiolo e il Calabrese di Montenuovo. Un vitigno mezzo toscano e mezzo calabrese, parente del Groppello e del Nerello Mascalese. È comunque evidente che il traffico commerciale, dal Sud al Centro della Penisola, porta con sé anche la diffusione delle marze e dei sistemi di vinificazione. Difficile dunque cristallizzare in via definitiva una vite in un solo contesto territoriale. Per parlare di identità occorre altro: la Storia, la Tradizione e la Cultura. E in Toscana l’intreccio tra Sangiovese, i paesaggi agrari e la tradizione vitivinicola è assai risalente, anche se non esclusiva. La cultura contadina per sopravvivere si fondava su biodiversità e varietà. Era essenziale puntare più numeri alla roulette dei capricci stagionali. I vini erano frutto di assemblaggio o taglio di diverse varietà e assecondavano le annate e le variazioni climatiche. Inoltre i vini dovevano essere di pronta beva. Così è stato anche a Montalcino. Il Mons Lucinus, luogo sacro alla Dea dei Boschi, è stato nei secoli simbolo di orgoglio e indipendenza comunale, ma anche di passione per i vini: la sua fama era però legata al moscadello, un gradevole Bianco, Dolce o passito, dallo stile spesso ossidativo. Un liquido più facile da conservare. Verso la metà del 1500 il Comune di Montalcino, prima di essere annesso nel Granducato di Toscana, resistette per giorni all’assedio sferrato dai Fiorentini. Blaise de Montluc, preposto alla difesa delle mura cittadine, per nascondere le sofferenze “si arrubinava il volto con il robusto vino”. È da allora che risulta documentata la presenza del Sangiovese in Toscana. Giovan Vettorio Soderini (Trattato della coltivazione delle viti e del frutto che se ne può cavare, 1600) parla del Sangiogheto “aspro a mangiare, ma sugoso e pienissimo di vino”. Ma in altro passo afferma “ e guardati dal sangiogheto, che chi crede farne vino ne fa aceto”. Nel 1726 Cosimo Trinci (in l’Agricoltore Sperimentato) scriveva sull’omonimo S. Zoveto: “Fa il vino senza odore, molto colorito, grosso e spiritoso; ma portandosi nell’Estate piglia facilmente d’aceto, o come altri dicono, il fuoco”. Solo a metà del 1800, grazie alle conoscenze scientifiche e alle selezioni di Clemente Biondi Santi, si delinea il Sangiovese moderno. Si riesce ad imbrigliare tanta acidità e tannicità e si affinano sistemi di vinificazione capaci di fare del Brunello l’emblema del vino da invecchiamento. Seguono i riconoscimenti internazionali, non solo per il Brunello di Biondi Santi, ma anche per quello di Riccardo Paccagnini. L’agenzia di stampa sulle origini del Sangiovese è una buona occasione per onorarlo. E così in terra etrusca, a Chiusi - oltre il “fosso umbro”, come amano sottolineare in questa terra - ci lasciamo accogliere dal clima caldo e ospitale dell’Osteria La Solita Zuppa.
Servizio, carta, calore e menù veramente ineccepibili. Due le bottiglie. La prima è il Ciliegiolo Vallerana Alta, 2010, di Antonio Camillo. Ci garantiamo un’introduzione gioiosa, fruttata, sincera e sbarazzina: decisamente un ottimo esercizio per liberare la mente e preparare lo spirito. A seguire ci attende maestoso il Brunello Di Montalcino, Fuligni 2006. Frutto rosso, duraturo, interminabile. Canfora, cenni di pepe giapponese, sbuffi balsamici, foglie di leccio umide, ghiande. Ci avvolge l’atmosfera autunnale ingentilita da menta selvatica, mirto e praline di cacao bianco. Entra in bocca in punta di piedi. Sussurra, si espande, mostra potenza, rigorosa linearità, eleganza. Si snoda dolcemente, per poi confondere l’aspettativa iniziale con sorprendente energia, ancora giovanile e fresca. Lascia impressa una sapidità profonda arricchita da tracce balsamiche ed empireumatiche dal segno indelebile.
Un bel trionfo della Natura e dell’Uomo!
Hosteria La Solita Zuppa
Chiusi (SI)
www.lasolitazuppa.it
Antonio Camillo
Manciano (GR)
Fuligni
Montalcino (SI)
www.fuligni.it