Ogni appassionato di vino, inevitabilmente, è anche appassionato di olio. Due piante, due alimenti e anche due espressioni culturali che hanno percorso millenni di storia insieme per giungere sino a noi. La liana della vite e l’albero dell’ulivo condividono gran parte dello stesso territorio, amano lo stesso sole e vivono entrambi con poca acqua. I loro prodotti, vino e olio, vantano le medesime origini mesopotamiche con spremiture causali ed empiriche. Sin dalle loro prime apparizioni hanno conquistato la prossimità con il divino. Orotalt, la dea della madre vite, presso i Sumeri, Fufluns in Etruria, Dioniso in Grecia e poi Bacco a Roma hanno forgiato la cultura ludica e orgiastica che il vino esprime nella propria componente alcolica. Più sobrio e pacato il percorso dell’olio. Creato dalla saggia Atena per fornire un succo prezioso, l’ulivo divenne premio per gli atleti che la celebravano, simbolo di fertilità e di pace, insieme alla colomba, che portandone un ramoscello a Noè annuncia la fine del diluvio. Anche il Corano, pur vietando il consumo di vino, assicura, tramite il suo profeta Maometto, che nell’aldilà i Giusti “berranno di un vino puro la cui stessa feccia profuma di muschio.” Più facile il cammino dell’olio: “Allah è la luce dei cieli e della terra. La Sua luce è come quella di … una lampada … il suo combustibile viene da un albero benedetto, un olivo né orientale né occidentale, il cui olio sembra illuminare senza neppure essere toccato dal fuoco.” (Sura An-Nur/La Luce- v.35 e 36). Gesù poi mette tutti d’accordo, in qualità di “Unto del Signore” trasforma l’acqua in vino. Prega nel Getsemani (frantoio in aramaico) sul Monte degli Ulivi e mentre spezza il pane offre il vino come suo sangue. Non a caso da allora vino e olio sono parte integrante dei sacramenti della religione cristiana. Eucarestia per il vino, battesimo, cresima ed estrema unzione per l’olio. Questa sacralità, insieme al prezioso lavoro di monasteri e abbazie, riuscì a preservare la vite e l’ulivo dalla barbarie medievale. Questa intensa comunione culturale di matrice divina ha però come unico artefice l’uomo. Le due materie prime, infatti, pur se di naturale origine divina, non potrebbero assurgere al loro sacro ruolo di vino e olio senza l’intervento dell’uomo. Le due piante vanno, infatti, plasmate per divenire quei nettari che hanno dato vita alla intera cultura mediterranea. Come la cantina è il luogo sacro della trasformazione dell’uva in vino, così il frantoio è lo spazio liturgico per la conversione delle olive in olio.La visita, realizzata nell’ambito del 15° Corso per Sommelier dell’Olio organizzato dall’Associazione Italiano Sommelier Olio presso il frantoio di Lucia Iannotta a Sonnino, è stata un’esperienza esaltante che ogni amante del vino, e quindi anche dell’olio, dovrebbe assolutamente fare. Nel frantoio l’azione dell’uomo e delle sue macchine è evidente. L’assaggio di un’oliva vergine, amara ai limiti del sopportabile, spiega, meglio di qualsiasi trattato, come senza il paziente e costante lavoro dell’uomo l’oliva avrebbe ben poche attrattive. Eliminare le foglie, lavare i frutti, tritarli, impastarli, estrarre da questo impasto il nettare, per separarlo poi da acqua e sansa, sono azioni che assomigliano molto a quelle svolte in cantina. Qui si eliminano i raspi, si pigia delicatamente l’uva e la si fermenta per poi dividerla dalle vinacce e dalle fecce. In entrambi i casi l’uomo è sempre il protagonista del miracolo divino della trasformazione. Entrare nel vasto mondo dell’ulivo, delle sue seicento cultivar e della infinita gamma degli oli che ne derivano è il naturale compendio di chi ha già iniziato lo stesso percorso nell’universo del vino. Un grande uomo, Pablo Neruda, questo lo aveva capito da tempo e, oltre a scrivere la famosa “Ode al vino”, ha dedicato un’altra lirica anche all’olio:
Accanto al frusciare del cereale, tra le onde del vento sull’avena,
l’Ulivo
dal volume argentato, severo nel suo lignaggio, nel suo contorto cuore terrestre: le gracili olive levigate dalle dita che fecero la colomba e la chiocciola marina: verdi, innumerevoli, purissimi capezzoli della natura, e lì negli assolati uliveti, dove solamente cielo azzurro con cicale e terra dura esistono, lì il prodigio, la capsula perfetta dell’uliva che riempie il fogliame con le sue costellazioni: più tardi nei recipienti, il miracolo,
l’Olio.
Io amo le patrie dell’olio, gli uliveti di Chacabuco in Cile, al mattino le piume di platino forestali contro la rugosa cordigliera, ad Anacapri, in alto, avvolta dalla luce tirrena, la disperazione degli ulivi, e nella mappa d’Europa, la Spagna, cesta nera di olive spolverata di zagare da una ventata marina.
Olio,
recondita e suprema condizione della pentola, piedistallo di perdizioni, chiave celeste della maionese, soave e saporito sulle lattughe e soprannaturale nell’inferno degli arcivescovili latterini.
Olio,
nella nostra voce, nel nostro coro, con intima mitezza possente tu canti: sei idioma castigliano: hai sillabe di olio, hai parole utili e profumate come la tua fragrante materia. Non soltanto il vino canta, anche l’olio canta, vive in noi con la sua luce matura e tra i beni della terra io scelgo,
Olio,
la tua inesauribile pace, la tua essenza verde, il tuo ricolmo tesoro che discende dalle sorgenti dell’ulivo.
Foto di Luca Busca