“La scritta sul muro <<continua ad essere il mio sogno>> è vergata da un pennarello nero. La data dice 2008. Sta ai piedi dell’ultima, piccola salita, che porta alla casa. Non l’ha scritta lui, non è tipo da farlo, ma il contenuto gli sta bene. Forse non l’ha cancellata per quello.
Lui è Angiolino Maule. La migliore Garganega italiana è sua. Personale, diretta, senza mediazioni. Ovvio, ricorda i tratti dell’autore.”
Con queste parole Andrea Scanzi nel suo “Il vino degli altri” (Mondadori, 2010) descrive un produttore di grande carattere, che parla del sua idea di vino, e fa parlare e discutere da molti anni ormai.
Proprio sulle parole che ho riportato, mi sono preparato la prima volta ad incontrare Angiolino, nel gennaio 2011, per una degustazione e discussione sui vini naturali a Padova. Con le stesse parole l’ho accolto ad una recente serata organizzata con Fondazione Italiana Sommelier Veneto a Verona.
Angiolino si presenta con un leggero raffreddore, magro com’è sempre stato, con le mani segnate dal lavoro nella terra, in vigna, in cantina, e con quegli occhi vispi e luccicanti, segno di passione che sa illuminare con le parole e con le idee, e trasmettere la propria poetica sul vino.
"Accetto e difendo quello che la terra mi dà, senza correggere, aggiungere o sottrarre per avere di più” è l’incipit del suo messaggio alla sala, parole vissute, aneddoti che sono il segno di una vita impegnata nell’inseguimento di un obiettivo, produrre il vino come “frutto della terra, trasformato dalla cultura dell’uomo”. Quante sofferenze, difficoltà, incertezze ci siano nel percorso, solo i suoi racconti riescono a comunicarlo; a partire dalla conoscenza con il mito, mentore e maestro Josko Gravner, in un sodalizio che alla fine resta spirituale e personale, perché le strade si dividono; con le associazioni fondate e sciolte, perchè qualcuno “giocava sporco” e le analisi chimiche del terreno non mentono. Quindi l’azzeramento, la ri-partenza da zero, da solo con i suoi figli e la sua famiglia, da cui nasce Vinnatur, associazione nella quale tutti gli aderenti sono disposti a lasciar analizzare i propri terreni, per impegnarsi attivamente nella ricerca di un equilibrio biologico e microbiologico della terra, abolendo radicalmente ogni forma di pesticida di sintesi.
Fosse stato un architetto, Angiolino si sarebbe ispirato al grandissimo Mies Van der Rohe con il suo “less is more”, manifesto del minimalismo, in una ricerca e sfida continua per fare il vino senza aggiungere nulla all’uva, né lieviti selezionati, né mannoproteine, nè stabilizzanti, né tantomeno anidride solforosa (per i suoi vini bianchi fermi la solforosa totale arriva al massimo a 0,1 mg/l). Questo richiede curiosità, non fermare mai il cervello nel pensare, continuare ad analizzare i mosti affinché non si inneschino fenomeni e fermentazioni batteriche indesiderate o in momenti inopportuni; l’unico trattamento consentito è quello fisico, con il controllo della temperatura. Il risultato lo si ritrova nel bicchiere, con splendide interpretazioni di uva Garganega in terreni calcarei e tufaceo/vulcanici, e Tai Rosso su pendici argillose. La sua garganega si esprime in colorazioni oro vivace e corredi odorosi di tutto rispetto, estremamente minerali e profondamente terziarizzati, con afflato fresco sapido di impressionante vigore, e nuance di idrocarburo a dipingere i dettagli di un naso che è preludio ad una grande corrispondenza in bocca, giocata sull’equilibrio fresco-sapido con la morbidezza, e ad una alcolicità appena percettibile nel suo bianco “Pico” (nei tre vigneti di Monte di Mezzo, Faldeo, Taibane, le cui composizioni diverse si riflettono ampiamente nei vini) che a seconda delle vigne viaggia per l’annata 2011 tra i 12,5 e i 13 gradi alcolici. Il suo rosso Masieri (da uve Tai Rosso), annata 2012, si presenta ancora giovanissimo (dopo 4 anni e con appena 2 mg/l di solforosa totale) e uno spettro olfattivo già complesso e danzante tra il frutto di mora e lampone, e note terranee di bosco e tartufo, che introducono una bocca dalla tannicità garbata e dalla impressionante freschezza, a fare da contraltare ad una alcolicità del 14,5 %. Infine il suo vino dolce (Recioto di Gambellara, l’unico dei suoi vini a denominazione d'origine, solo perché “non abbiamo ancora trovato un nome adeguato, poi lo faremo uscire dalla denominazione”) è un distillato ambra lucente di emozioni del suo racconto, si sviluppa prima al naso e poi in bocca con grande complessità, decisione, calore e morbidezza, sorretto da una inconfondibile vena sapida che è fiero testimone del territorio. Ottenere risultati in bottiglia di grande vivacità, longevità, senza l’ausilio di solforosa, è quantomeno testimonianza di un lavoro estremamente accurato in vigna e in cantina, senza se e senza ma.
Il lavoro di questo produttore, la sua voglia di interrogarsi e di capire, mi riportano alla mente il metodo sperimentale di Galileo Galilei, che del vino scrisse: "Il vino è come il sangue della terra, sole catturato e trasformato da una struttura così artificiosa qual è il granello d’uva, mirabile laboratorio in cui operano ordigni, ingegni e potenze congegnate da un clinico occulto e perfetto. Il vino è licòre d’altissimo magistero composto d’umore e di luce, per cui virtù l’ingegno si fa illustre e chiaro, l’anima si dilata, gli spiriti si confortono, e l’allegrezze si moltiplicano.”
Il vino è la luce del sole tenuta insieme dall'acqua
Lui, Angiolino, sa incantare la platea come pochi, e come pochi sa rispondere in maniera sincera, precisa, diretta, accorata, a domande provocatorie, sa discutere l’uomo. E fa discutere. Non si tratta di un folle idealista che insegue il sogno sulla sola forza dei nervi, si tratta di un artigiano che si interroga, e con la conforto della scienza e dei numeri cerca una strada, la sua strada, e quella strada continua ad essere il suo sogno.