Sapevo che prima o poi sarebbe arrivato questo momento, in un certo senso ero preparato, ma avrei aspettato volentieri un altro po’, rimandandolo ad un tempo indefinito.
Mai invece avrei pensato di scrivere un pezzo in questo momento, sul sedile di un treno che viaggia in mezzo alle colline tra Lazio e Umbria, e di scriverlo su una persona che non ho conosciuto, ma che ho amato attraverso i suoi vini.
Ricordo ancora con esattezza il momento in cui per la prima volta senti parlare del mitico Mas de Daumas Gassac. Ero un giovane neo diplomato sommelier, più o meno una decina di anni fa, e gli amici raccontavano di questa etichetta leggendaria, di questo viticoltore assolutamente visionario, che aveva deciso di creare un grandissimo vino in una zona calda come la Languedoc, e farlo al di fuori dei disciplinare dell’AOC.
"Aimé Guibert est mort”, purtroppo. Mi piace riprendere la sua nota esclamazione, ripresa magistralmente da Jonathan Nossiter nel suo film “Mondovino”; “le vin est mort. Soyon clairs, le vin est mort. Et pas seulement les vins, mais aussi les fruits. Les fromages…”
Questa frase che raccoglie una certa disillusione di fronte a ciò che, a cavallo dell’ultima transizione di secolo, è accaduto (e ancora accade?) nel mondo del vino, l’industrializzazione estrema tesa al profitto che in questo modo rende innaturale un legame così diretto tra il vino e la terra. Paradossalmente, e a suo modo, anche Aimé Guibert ha stravolto lo schema del “rapporto naturale tra la vigna e il suo territorio vocazionale” che vorrebbe essere imbrigliato nei disciplinari di produzione. Lo ha stravolto come probabilmente solo lui avrebbe potuto fare; fidandosi della scienza, delle analisi del professor Enjabert che nel 1971 suggerisce di provare a creare un grande vino, senza utilizzare i vitigni della tradizione, ma utilizzando vitigni internazionali come i Cabernet e il Merlot, e altri come il Tannat o il Pinot nero. Fiducia nella scienza, che aveva studiato la precisa conformazione orografica e microclimatica del Domaine, e forza del sogno, consapevoli del fatto che ci sarebbero voluti forse anche 200 anni prima che il fino si fosse potuto affermare. E’ la singolarità di una proprietà che, immersa in una zona calda, ha un microclima più fresco grazie ad una vicina montagna, ad una falda di acqua fresca e al vicino fiume Gassac, che dona un tocco di umidità che ricorda quella del Medoc.
Anime Guibert, che era un artigiano della pelletteria (produceva guanti) ha creduto nell’unicità di un territorio, e ha dedicato la sua vita a capirlo, leggerlo, e interpretarlo nel miglior modo possibile; non è stato un semplice “ribelle alla tradizione”, ma un ascoltatore di terroir.
Un'emozione simile a quella che proviamo quando degustiamo il Mas de Daumas Gassac rosso, con i suoi effluvi di frutta scura e complessità speziate che virano fino al cioccolato bianco, la deve aver provata, amplificata all’ennesima potenza l’enologo Emile Peynaud, allora consulente dei grandi Chateau bordolesi. Quando gli chiesero perché si impegnasse così tanto con un piccolo produttore di Languedoc, essendo il deus ex machina di alcuni dei vini più importanti del panorama internazionale, Peynaud rispose che lui era “semplice” consulente di aziende che il vino lo producevano già, mentre con il Daumas Gassac aveva assistito alla vera e propria “nascita” di un grand cru.
“Non possiamo che donare due cose ai figli: delle radici e delle ali”, radici e ali che Aimé Guibert ha donato al mondo del vino, conoscenza di un territorio e capacità di volare alto, al di sopra del conformismo e delle consuetudini, per regalarci una visione privilegiata, più elevata, una nuova prospettiva e una grandissima emozione.