Come eravamo
Tentativo di ricostruzione di 30 anni di ricordi di un Sommelier a Roma.
Pubblicato il 29/05/2017
Lo scorso anno ho avuto l’onore del diploma trentennale.
Ma se mi guardo indietro, più di quarant’anni son passati da quando, nel 1976, laureando alla Sapienza col chiarissimo Professor Giulio Carlo Argan, decisi di aprire se non il primo, il secondo o al massimo terzo wine-bar della capitale, assieme ad alcuni coetanei un po’ pazzi ed entusiasti come me. Per i loro, per i miei genitori, dopo tanti sacrifici era un affronto intollerabile vederci buttare alle ortiche la feluca universitaria e una stimata professione. Da parte nostra, era vano ogni tentativo di rassicurarli, ogni sforzo per convincerli che l’osteria vecchio stampo c’entrava poco o nulla, che dal seminato culturale non avevamo affatto dirazzato, ed anzi intendevamo porre le nostre energie e le nostre fervide menti al servizio dell’enogastronomia italiana, un patrimonio immenso e purtroppo negletto, non meno rappresentativo dell’identità nazionale e degno di stare alla pari con l’arte, la letteratura, la filosofia, le scienze e le altre discipline nobili, fondamento ed orgoglio dello scibile umano. Il tempo ci ha poi dato ragione. Di certo era improbabile che la generazione dei nostri padri, nata e cresciuta nel grigio periodo fra i due conflitti mondiali, potesse comprendere appieno la portata di simili cambiamenti e le profonde trasformazioni di un’Italia passata in pochi anni da un’economia in prevalenza rurale al boom economico e alla crescita dei centri urbani, a discapito delle campagne. Il vino diventava bevanda edonistica per eccellenza, e non più benzina del bracciante, come era stato per secoli; si beveva progressivamente sempre meno, ma infinitamente meglio.
Ma se mi guardo indietro, più di quarant’anni son passati da quando, nel 1976, laureando alla Sapienza col chiarissimo Professor Giulio Carlo Argan, decisi di aprire se non il primo, il secondo o al massimo terzo wine-bar della capitale, assieme ad alcuni coetanei un po’ pazzi ed entusiasti come me. Per i loro, per i miei genitori, dopo tanti sacrifici era un affronto intollerabile vederci buttare alle ortiche la feluca universitaria e una stimata professione. Da parte nostra, era vano ogni tentativo di rassicurarli, ogni sforzo per convincerli che l’osteria vecchio stampo c’entrava poco o nulla, che dal seminato culturale non avevamo affatto dirazzato, ed anzi intendevamo porre le nostre energie e le nostre fervide menti al servizio dell’enogastronomia italiana, un patrimonio immenso e purtroppo negletto, non meno rappresentativo dell’identità nazionale e degno di stare alla pari con l’arte, la letteratura, la filosofia, le scienze e le altre discipline nobili, fondamento ed orgoglio dello scibile umano. Il tempo ci ha poi dato ragione. Di certo era improbabile che la generazione dei nostri padri, nata e cresciuta nel grigio periodo fra i due conflitti mondiali, potesse comprendere appieno la portata di simili cambiamenti e le profonde trasformazioni di un’Italia passata in pochi anni da un’economia in prevalenza rurale al boom economico e alla crescita dei centri urbani, a discapito delle campagne. Il vino diventava bevanda edonistica per eccellenza, e non più benzina del bracciante, come era stato per secoli; si beveva progressivamente sempre meno, ma infinitamente meglio.
Al cibo industriale massificato, espressione di una mortificante società dei consumi globale che tutto livella e appiattisce, diventava di vitale importanza contrapporre, tutelandole e salvaguardandole, le produzioni artigianali su base locale, conclamate manifestazioni di una cultura materiale ovunque diffusa, nel nostro Paese ricca e variegata quant’altre mai. Ci confortavano gli scritti, le dichiarazioni, le umane testimonianze di Gino Veronelli, Mario Soldati, Giovanni Brera, l’Alberto Capatti della Gola e di un crescente numero di appassionati, poi divenuti zoccolo duro del rinascimento del gusto italiano e della sua affermazione nel mondo. Ricordando le difficoltà di quei tempi eroici, e quanto erano pochi e sparuti gli iscritti, non posso fare a meno, neanche dopo tutti questi anni, di provare un certo istintivo stupore quando un corso o un evento sul vino mi chiama nelle diverse regioni italiane, in Europa o addirittura oltreoceano, e mi sembra un sogno trovare la sala piena e un uditorio attento e partecipe, per non parlare del supporto impeccabile dei sommelier di servizio, precisi e puntuali nel loro compito, attenti a ogni necessità e preparati a ogni imprevisto. Davvero così tanto è progredita la passione per il vino, mi interrogo ogni volta?
Ed eccomi a scavare nei ricordi personali. Trent’anni fa il referente dei corsi professionali di Roma era un ristoratore appassionato, Severino Severini, marchigiano di origine, titolare di un esercizio di sostanza e senza voli pindarici, “Severino a Piazza Zama”; tra Roma sud e Fiumicino, altro luogo di riferimento dei sommelier capitolini erano Ezio e Mimma Bastianelli, titolari di un locale rustico-elegante alla foce del Tevere prediletto da Fellini e star hollywoodiane.
Mentre Milano già si avvantaggiava di una sede stabile, Roma era più avventurosa, tanto che i corsisti si trovavano a cambiare sede tra un livello e l’altro. Nel 1984 eravamo una ventina, in massima parte addetti ai lavori, tra cui Arcangelo Dandini del Simposio, Antonio Ciminelli della Torre di Fiuggi, Armando De Persio della Scaletta di Civitavecchia, Sergio Ceccarelli del Goccetto, Paolo Poli e Farshid Nourai allora rispettivamente al Bacaro e a Semidivino, senza dimenticare appassionati di assoluto valore, come Francesco Del Canuto e Claudia Sabina Ferrero, i cui nomi restano scolpiti a lettere d’oro negli annali dei docenti storici. I corsi, per non intralciare le normali attività di Severino, si svolgevano di fronte al suo locale, nell’oratorio del Collegio Irlandese di Piazza Zama. L’eco di qualche canto liturgico, o il vocìo dei ragazzi alle prese con ping pong e calciobalilla non ci disturbava più di tanto, né facevamo caso alla scomodità dei classici banchi di scuola col foro per il calamaio.
Ovviamente non c’erano tovaglie bianche, né luci diffuse, come imporrebbe la didattica attuale. Officiava la lezione l’allora direttore dei corsi di Roma, l’anziano ma sempre autorevole generale Rizzardi, coadiuvato dall’ineffabile Bruschi, sommelier vecchia scuola, austero nel servizio, capace tuttavia di fulminanti battute. Tra i docenti, stimati enotecari come Marco Trimani, ristoratori come Alberto Ciarla o la Signora Mariani di Checchino al Mattatoio, distributori come Salvini, giornalisti come Stefano Milioni (che già era stato in America, e ne riportava spicchi di futuro) e un giovanissimo Cernilli, fresco di laurea in lettere. I libri di testo erano dispense a ciclostile, senza illustrazioni. Per ovviare, i docenti più à la page integravano con lucidi proiettati da lavagna luminosa, sui quali col pennarello si completavano i grafici ideati da Antonio Piccinardi, giornalista, e Pietro Mercadini, insegnante di matematica prestato al vino. Il corso terminò all’Hotel Boston, a Via Veneto, e ci sembrò un bel salto di qualità, prima del Parco dei Principi e dello storico Hilton, poi Cavalieri Astoria.
Così eravamo in quegli anni. Tanta acqua è passata sotto i ponti, fiumane di vino hanno inondato i nostri calici. E tuttavia, nonostante le difficoltà, non ritengo potesse esservi scuola migliore, ove la sincera passione degli insegnanti e il loro contagioso entusiasmo suppliva egregiamente al discutibile livello dei vini in degustazione, parecchi dei quali, come il Bianchello “bianco carta” o certi Chianti “tipici” aranciati e graveolenti, giustamente relegati nel dimenticatoio del tempo che fu. Noi allievi, poi, eravamo instancabili nel bussare alle porte delle cantine e nel frequentare il Vinitaly, dove si andava in gruppo e si tornava in giornata, perché i padiglioni erano tre-quattro, pochissimo affollati, rappresentando perciò una occasione unica per incontrare produttori di punta, enologi e agronomi, con i quali crescevamo assieme, scambiandoci opinioni e scoperte; assieme a noi, di rimando, crescevano e si affermavano i migliori terroir vinicoli del nostro Paese, cresceva (finalmente!) quella cultura del vino e dell’enogastronomia che auspicavamo e sognavamo.
Così eravamo in quegli anni. Tanta acqua è passata sotto i ponti, fiumane di vino hanno inondato i nostri calici. E tuttavia, nonostante le difficoltà, non ritengo potesse esservi scuola migliore, ove la sincera passione degli insegnanti e il loro contagioso entusiasmo suppliva egregiamente al discutibile livello dei vini in degustazione, parecchi dei quali, come il Bianchello “bianco carta” o certi Chianti “tipici” aranciati e graveolenti, giustamente relegati nel dimenticatoio del tempo che fu. Noi allievi, poi, eravamo instancabili nel bussare alle porte delle cantine e nel frequentare il Vinitaly, dove si andava in gruppo e si tornava in giornata, perché i padiglioni erano tre-quattro, pochissimo affollati, rappresentando perciò una occasione unica per incontrare produttori di punta, enologi e agronomi, con i quali crescevamo assieme, scambiandoci opinioni e scoperte; assieme a noi, di rimando, crescevano e si affermavano i migliori terroir vinicoli del nostro Paese, cresceva (finalmente!) quella cultura del vino e dell’enogastronomia che auspicavamo e sognavamo.
Erano i nostri anni formidabili; noi, neosommelier degli anni ottanta-novanta, bruciavamo letteralmente di entusiasmo e di impazienza. Il wine bar, dopo quasi vent’anni, decisi senza troppa fatica di lasciarlo, affascinato dagli orizzonti vastissimi del rinnovamento che si prospettava e dal dinamismo del lavoro di squadra. Si rinnovava profondamente la didattica, si stampavano testi più completi, cresceva l’appeal dei corsi, innescando un vero e proprio fenomeno di massa. Al popolo del vino, però, sentivamo l’esigenza di dover dedicare un’efficace comunicazione, che fosse davvero per tutti, in quanto sembravano ancor troppo poco sia il coltissimo Veronelli, sia il Gambero Rosso degli esordi. Seguendo tale prospettiva, decidemmo di dare nuova veste al bimestrale Sommelier Italiano, in origine poco più di un bollettino imperniato su comunicati e rendiconti economici, arricchendolo di articoli stimolanti e foto accattivanti. Nasce così, alle soglie degli anni duemila, il progetto editoriale Duemilavini- Bibenda, guida del vino davvero completa, con tutte quelle informazioni che l’appassionato non aveva mai osato chiedere, dai prezzi agli abbinamenti ideali. Impermeabile alle crisi, forte di una storia plurimillenaria e di profonde radici culturali, Il vino dilaga ovunque, in radio, in televisione e in rete, sia come oggetto di analisi socio-economica e chiave di lettura privilegiata della società contemporanea, sia come fenomeno di costume che non disdegna l’effimero, legandosi a moda, glamour ed entertainment. Ne è puntuale testimone, dal 2002, il magazine Bibenda, ma questa è anche storia di oggi, e di domani. Ne abbiamo fatta di strada, da quegli esordi avventurosi e un po’ romantici che qui ho voluto ricordare, anche come devoto omaggio a tanti maestri e a tanti compagni di cordata che non ci sono più. Tanta ne resta ancora da fare.
Nell'immagine la copertina di DUEMILAVINI Prima Edizione (Anno 2000).
L'opera di Magritte raffigura un ombrello al cui vertice è piazzato un bicchiere mezzo pieno.
Ci sembrò che quell'immagine parlasse di noi, della nostra prima apparizione, della (in)certezza di aver commesso degli errori, del volerci riparare dalle intemperie.
La scegliemmo come simbolo, mentre entravamo nel mondo delle guide in punta di piedi.
Nel corso degli anni la nostra filosofia è rimasta quella di allora, così come la nostra trasparenza, la nostra onestà intellettuale. Da sempre copiati, a Novembre festeggeremo la Ventesima Edizione.
L'opera di Magritte raffigura un ombrello al cui vertice è piazzato un bicchiere mezzo pieno.
Ci sembrò che quell'immagine parlasse di noi, della nostra prima apparizione, della (in)certezza di aver commesso degli errori, del volerci riparare dalle intemperie.
La scegliemmo come simbolo, mentre entravamo nel mondo delle guide in punta di piedi.
Nel corso degli anni la nostra filosofia è rimasta quella di allora, così come la nostra trasparenza, la nostra onestà intellettuale. Da sempre copiati, a Novembre festeggeremo la Ventesima Edizione.