Orange wines
La quarta ipostasi del vino.
Pubblicato il 09/05/2018
È Orange Wine. È arrivato il momento dell’affermazione definitiva. Dopo averlo snobbato e trattato da passante modaiolo, l’abbiamo chiamato “il nuovo vino bianco”, “bianco fatto come se fosse rosso”, “il nuovo rosé” e addirittura “Off-Whites”.
E invece è l’orange, e da un po’ di tempo ha conquistato la propria pagina nelle più importanti carte del vino del mondo. La mitica lista “Livre du Vin” del ristorante dell’hotel Ritz di Londra ha istituzionalizzato questo avvento, inserendo due vini georgiani a fianco degli italiani Vitovska di Zidarich, “Jakot” di Radikon e Ribolla Gialla di Dario Prinčič sotto la voce di “Orange wine”.
Si potrebbe chiamare simbolica questa scelta del Ritz: le due nazioni citate non sono altro che la culla dei vini aranciati la prima, e il luogo del loro Rinascimento la seconda.
Sono anche le protagoniste assolute dell’”Amber Revolution” di Simon Woolf, primo libro interamente dedicato all’orange wine in uscita quest’estate. Originario, per l’appunto, della Georgia, dove da sempre è stato chiamato “ambrato”, l’orange wine ha migliaia di anni di storia alle spalle. A quell’epoca il vino non poteva che essere “naturale”, sia per la conduzione in vigna che per il trattamento in cantina. Grandi qvevri di argilla, posti nella terra, garantivano una lenta e gentile fermentazione, preservando il vino dagli sbalzi termici e favorendo una graduale estrazione degli aromi e dei tannini. Permettendo al vino, figlio di annata e del terroir, di seguire i propri tempi, creando un vino unico e irrepetibile ogni volta.
Fu Josko Gravner - il capostipite del rinascimento “ramato”, chiamato “Ritorno al futuro” – a sfidare ogni regola del mercato, portando in Oslavia enormi anfore dalla Georgia. Come nell’antico Caucaso, Josko seleziona a mano l’uva maturata in vigna senza interventi chimici (“la concimazione per la terra è come la droga per l’uomo: ti dà la forza e ti uccide” Gravner) e la lascia a fare il suo percorso nei qvevri interrati, un percorso che dura anni: è il vino a stabilire il punto di arrivo. All’inizio l’hanno seguito in pochi, qualcuno con anfore, altri usando tradizionale cemento o legno. Oslavia, Collio, Carso da ambedue i lati del confine Italia-Slovenia. Poi Australia, Francia, Spagna, Stati Uniti, Austria, Croazia. Arriveranno anche gli altri. Perché non è una moda, gli orange sono arrivati per restare.
E invece è l’orange, e da un po’ di tempo ha conquistato la propria pagina nelle più importanti carte del vino del mondo. La mitica lista “Livre du Vin” del ristorante dell’hotel Ritz di Londra ha istituzionalizzato questo avvento, inserendo due vini georgiani a fianco degli italiani Vitovska di Zidarich, “Jakot” di Radikon e Ribolla Gialla di Dario Prinčič sotto la voce di “Orange wine”.
Si potrebbe chiamare simbolica questa scelta del Ritz: le due nazioni citate non sono altro che la culla dei vini aranciati la prima, e il luogo del loro Rinascimento la seconda.
Sono anche le protagoniste assolute dell’”Amber Revolution” di Simon Woolf, primo libro interamente dedicato all’orange wine in uscita quest’estate. Originario, per l’appunto, della Georgia, dove da sempre è stato chiamato “ambrato”, l’orange wine ha migliaia di anni di storia alle spalle. A quell’epoca il vino non poteva che essere “naturale”, sia per la conduzione in vigna che per il trattamento in cantina. Grandi qvevri di argilla, posti nella terra, garantivano una lenta e gentile fermentazione, preservando il vino dagli sbalzi termici e favorendo una graduale estrazione degli aromi e dei tannini. Permettendo al vino, figlio di annata e del terroir, di seguire i propri tempi, creando un vino unico e irrepetibile ogni volta.
Fu Josko Gravner - il capostipite del rinascimento “ramato”, chiamato “Ritorno al futuro” – a sfidare ogni regola del mercato, portando in Oslavia enormi anfore dalla Georgia. Come nell’antico Caucaso, Josko seleziona a mano l’uva maturata in vigna senza interventi chimici (“la concimazione per la terra è come la droga per l’uomo: ti dà la forza e ti uccide” Gravner) e la lascia a fare il suo percorso nei qvevri interrati, un percorso che dura anni: è il vino a stabilire il punto di arrivo. All’inizio l’hanno seguito in pochi, qualcuno con anfore, altri usando tradizionale cemento o legno. Oslavia, Collio, Carso da ambedue i lati del confine Italia-Slovenia. Poi Australia, Francia, Spagna, Stati Uniti, Austria, Croazia. Arriveranno anche gli altri. Perché non è una moda, gli orange sono arrivati per restare.
Dobbiamo, dunque, abituarci a questo termine? Forse. Anche se non è stata detta l’ultima parola. Il termine “orange” è stato genialmente coniato, agli arbori dei 2000, da David A. Harvey, un importatore di vini inglese che aveva l’urgenza di racchiudere questi vini in una categoria nel suo catalogo. Ma poiché il colore degli “orange” spazia dal paglierino al dorato, all’ambrato, al color ruggine, molti ristoratori si oppongono al suo uso, denominandoli nelle loro carte “macerated”, “skin contact”, “skin fermented”. In inglese, perché locali italiani con pagine dedicate a questa tipologia non sono ancora diffusi. Certo, “orange” è una parola comprensibile quasi in tutte le lingue e ha un “aspetto” positivo e solare, mentre un “vino macerato” potrebbe suonare scorato ai più. Eppure, a dispetto del termine, non è sempre arancione quel macerato! Quindi, come si riconosce un orange? Solo assaggiando. Macerati sulle bucce per un periodo prolungato, questi vini hanno la struttura, la consistenza e perfino i tannini di vini rossi, pur rimanendo freschi e leggiadri. Spesso stupiscono con aromi di smalto per legni, di olio di lino, con tocchi affumicati e d’incensi, anche se le note “classiche” degli orange sono albicocca, nocciola e ginepro, scorza di arancia, fieno e miele. Sono vini audaci, che cambiano nel bicchiere, mischiando le carte in tavola e rendendo la bevuta quasi interattiva. Tuttavia, è una categoria, un’ipostasi, come lo sono i bianchi e i rossi o i rosé, con conseguente moltitudine di stili e caratteri.
Paraschos Ribolla Gialla 2009, per esempio, conquista già alla vista per il suo colore esattamente arancione brillante, solare e allegro.
È reso intenso al naso da tanti agrumi disidratati, pot-pourri di fiori di campo, miele di castagno e nocciola. Gustosa, leggermente salata, questa ribolla lascia un piacevolissimo retrogusto minerale, condito con frutta secca. Matura nelle grosse anfore di argilla di Creta, incerate con cera d’api del Collio per il tempo di cui ha bisogno. Stupendo. Meglio aprirlo qualche ora prima.
Il Fiano veste orange e sta bene! Il Quartara 2013 di Lunarossa fa una lunga macerazione sulle bucce all’interno delle quartare (anfore di terracotta) interrate nella cantina, poi fa affinamento in botti di rovere. Paglierino dorato alla vista, manifesta una notevole ricchezza olfattiva, fatta di spezie, di erbe aromatiche, di fiore di bergamotto, di miele e nuance minerali. Gran bel corpo, morbidi tannini e lunga persistenza. Ci si innamora.
E un georgiano? Facciamo due! L’azienda si chiama Chateau Khashmi e si trova nella zona vitivinicola di Kakheti. Nonostante il nome altisonante, si tratta di una piccola azienda famigliare che fa vini ambrati seguendo la plurimillenaria tradizione del luogo. Rigorosamente qvevri, rigorosamente naturale, senza filtrazioni, chiarifiche o altro. Il primo vino in assaggio è Kisi 2017, dall’omonima uva autoctona. Colore paglierino dorato, snello di corpo, aromatico e beverino: un bicchiere tira l’altro. Un'altra storia è Rkatsiteli Vardo 2016, prodotto dal clone rosato di Rkatsiteli. Dorato con riflessi ramati, all’olfattiva seduce con i profumi di fichi secchi e di uva sultanina, nocciole e arancia candita. Seguono erbe aromatiche. Poi, camomilla e albicocca fresca. Come se andasse a ritroso, esibendo una bella complessità di aromi secondari, seguiti da primari. Potente al gusto, con una grande struttura e un lungo finale sapido. Trasversale. Bellissimo.
Si potrebbe proseguire all’infinito ma bastano questi esempi per dire “assaggiateli”! Non fatevi condizionare dal primo tentativo che potrebbe non essere tra i più felici. Sia per le caratteristiche di un prodotto non ancora maturo, sia per la novità gustativa che il palato fatica ad apprezzare all’istante. È un po’ come con le ostriche: si è diffidenti e scettici all’inizio e poi... Amate le ostriche?