Ero da Mario per il solito caffè del mercoledì, ed avevo portato con me la rivista WineEstate, un magazine-guida sulla produzione vinicola australiana e neozelandese. In questo numero veniva riportata un’intervista inedita a Max Shubert realizzata nel 1978 da un giovane giornalista del tempo, un certo Peter Simic oggi editore e publisher proprio di WineEstate. È interessante come l’articolo riveli la storia di un vino, il Grange di Penfolds, che all’inizio fu fatto di nascosto, un prodotto che ha poi fatto il giro del mondo in poco tempo, cambiando le sorti dell’enologia australiana, ispirando winemaker e appassionati del settore e focalizzando l’attenzione di un pubblico internazionale verso un territorio dalle potenzialità enologiche enormi. Nell’anno dell’intervista, non ero ancora nato, ma il concetto vino di qualità era già ben chiaro a persone dal forte carisma e passione come Max Shubert, il papà del Grange.
Nei primi anni della sua uscita, gli anni Cinquanta, questo vino, che si chiamava Grange Hermitage per ricordare lo stile dei grandi rossi del Rodano, non era assolutamente stato preso in considerazione. Non solo veniva criticato, ma addirittura considerato pericoloso per la stessa maison nei termini di un potenziale danno all’allora già prestigiosa immagine di Penfolds. In quegli anni vini dallo stile Grange non esistevano, perché non si prendeva in considerazione il concetto di prodotti che potessero conservarsi nel tempo ed esprimere grande eleganza dopo 10, 20 o più anni. Il vino in Australia si faceva per essere consumato in un breve arco di tempo o, in alternativa, veniva fortificato. Secondo Max Shubert i vini che circolavano in quegli anni erano pessimi perché prodotti con metodi sbagliati e senza considerare le caratteristiche e le differenze delle annate. Il Grange fu una rivoluzione in fatto di stile e tecniche produttive, possibile però solo grazie alla determinazione del suo winemaker e alla volontà di un importante personaggio appartenente alla famiglia Penfold, che da subito si è ciecamente fidata del suo winemaker tenendo quasi in segreto la produzione di un vino che in futuro avrebbe scritto la storia dell’enologia australiana.
In questa intervista sono riportati non solo i segreti ma anche le ragioni alla base della creazione di questo vino. Le vigne venivano ispezionate da Max Shubert stesso: una meticolosa ricerca per trovare l’uva perfetta dal lato della maturazione che costituì sin dall’inizio uno dei fondamentali punti di forza del Grange. La prima vigna fu quella di Morphett Vale, alle porte della regione vinicola di McLaren Vale; il Shiraz di questo appezzamento venne tagliato con quello della tenuta di Magill, quartier generale della maison, altrimenti sarebbe subito stato classificato come un cru. Successivamente si cambiò e si andò a “pescare” uva in altre aree come Kalimna in Barossa Valley, ancora oggi la risorsa principale per il Grange. Il legno usato per l’invecchiamento nei primi anni era quello americano, in botti da 230 litri perché secondo Max Shubert più adatto di quello francese nel mantenere la robustezza e la componente fruttata del vino. Dalle parole di Shubert si comprende una soddisfazione tutta personale contro i pregiudizi sul nuovo stile e traspare una sorta di sentimento di rivincita nei confronti di quanti lo avevano denigrato per le scelte a dir poco coraggiose. Ci vollero dieci anni dalla prima annata per fa capire come questo vino potesse garantire una qualità eccelsa ed uno stile paragonabile solo alla classe dei grandi francesi. Lui stesso racconta di quando fu ospite a Bordeaux dell’enologo Christian Kruse e dell’incredulità dell’allora trentenne Shubert di fronte ad assaggi di vini oltre quarant’anni. L’articolo infine esprime tutto il carattere di Shubert quando lui stesso dichiara: “vorrei esprimere la speranza che la produzione ed il gradimento di un insigne vino australiano come il Grange Hermitage, possa testimoniare che noi in Australia siamo capaci di produrre vini al pari dei migliori al mondo”.
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