L’appartenenza
è un’esigenza che si avverte a poco a poco,
si fa più forte alla presenza di un nemico, di un obiettivo o di uno scopo.
È quella forza che prepara al grande salto decisivo,
che ferma i fiumi, sposta i monti con lo slancio di quei magici momenti
in cui ti senti ancora vivo.
Giorgio Gaber
Uno dei grandi problemi di noi italiani è la mancanza di uno spiccato senso di appartenenza alla propria comunità. Vale per le grandi come per le piccole cose. Per dirla con un’espressione di cui recentemente si abusa, non sappiamo “fare sistema”. Nel mondo del vino questo difetto è particolarmente vistoso e ne paghiamo le conseguenze da decenni. Chiunque abbia mai parlato con un viticoltore francese sa perfettamente che egli, anche qualora ritenesse di fare il miglior vino del mondo e di essere una spanna al di sopra di tutti i suoi vicini, mai parlerà male di un collega, rendendosi perfettamente conto che il proprio vino acquisisce un valore aggiunto dall’essere espressione della cultura collettiva del territorio. Negli italiani, invece, c’è sempre la voglia assoluta di primeggiare, di sentirsi diversi e migliori degli altri. Soprattutto, c’è la voglia di farlo sapere al mondo, magari rafforzando l’idea con malignità gratuite contro il prossimo.
Ma, forse, non tutto è perduto.
Parlavo qualche giorno fa con l’amico Carlo Cambi. Di ritorno dalla Sardegna, si è detto profondamente impressionato dal senso di appartenenza alla comunità che manifestavano gli abitanti di Oliena e Orgosolo, orgogliosi di sentirsi uniti dai propri costumi, dalle proprie tradizioni, dalla propria cultura del territorio. Sentimenti costantemente scanditi dai sorsi di Nepente di Oliena, delizioso Cannonau che nel 1909 fu celebrato perfino dall’astemio Gabriele D’Annunzio: “Non conoscete il Nepente di Oliena neppure per fama? Ahi lasso! Io sono certo che, se ne beveste un sorso, non vorreste mai più partirvi dall’ombra delle candide rupi”. Questo vino caratteriale e senza fronzoli colora intensamente la vita quotidiana di quella gente, il loro ritrovarsi insieme e riscoprire ogni giorno ciò che li accomuna da generazioni. Senza invidie, senza gelosie, senza malignità. Possiamo dire lo stesso degli abitanti di Montalcino, di Montefalco, di Frascati, delle Langhe? Dei luoghi, insomma, che dovrebbero essere le icone del vino italiano?
Sogno un paese nel quale il senso di appartenenza del popolo non sia limitato a un inno biascicato malamente prima delle partite della nazionale. Un paese dove sia fonte di orgoglio e dignità esaltare ogni giorno il valore e l’originalità dei frutti del nostro lavoro. Dove i nostri vini siano acclamati davvero come “il canto della terra verso il cielo”. Un canto finalmente corale, che metta i brividi a chi lo ascolta, ovunque egli viva.