Un noto punto di vista borgognone asserisce che il vitigno è lo strumento con cui il vigneron interpreta la partitura offerta dal terroir. Si dice che una varietà “legge il terroir” quando sa mettersi al servizio del luogo e delle sue peculiarità senza far prevalere la propria specificità. Può essere anche uno stile produttivo, cioè interpretativo: cercare l’espressione territoriale anziché quella varietale. Non si suole pensare al Syrah come a un campione di tipicità: vitigno internazionale, adattabile e molto produttivo, ha spesso recitato l’ingrato ruolo di portabandiera di certa produzione massiva soprattutto australiana. Si coltiva in molte parti della nostra penisola (vedi Bibenda7 n.45) con alterni successi.
Mi è capitato di confrontare due espressioni recenti provenienti dalla Toscana cortonese, considerata terra d’elezione in Italia, e dalla Val d’Aosta, che si immaginerebbe meno vocata, e di sorprendermi per la territorialità dei due vini. Entrambi ottimi ma diversissimi.
Nordico, floreale e profumato di spezie e di erbe il primo. Torrido, concentrato e terziario (caffè, note ematiche) il secondo. Fresco, fine e assai bevibile il primo. Impegnativo, ponderoso e disposto ad una lunga evoluzione il secondo. La produzione ha cercato di assecondare: acciaio e breve affinamento in bottiglia per il primo; cemento e legno, estrazione e attenzione alla maturità tecnologica (equilibrio acidi/zuccheri nell’uva) nel secondo. Perfetto compagno degli antipasti il valdostano, sponda virtuosa di carni elaborate e speziate il cortonese.
Un’altra dimostrazione della saggezza borgognona. Non il vitigno, ma il terroir è il principale responsabile dell’esecuzione della sinfonia. Ci penso ogni volta che sento dire “ho bevuto un Syrah” come dire “ho sentito un violino”. Che sia impugnato da un artista o un dilettante, che suoni un’aria di Beethoven o una nenia stonata non può, non deve essere un dettaglio.
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Stefano Amerighi
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