Sui principali quotidiani e notiziari compaiono sempre più spesso articoli e servizi che segnalano casi di contraffazioni, sofisticazioni, alterazioni o difetti dei prodotti alimentari distribuiti dalla GDO. Di recente sono state trovate parti plastiche nelle barrette Mars, frammenti metallici nelle salsicce Esselunga, eccesso di glifosato in molte birre tedesche; e poi, eccesso di mercurio nel palombo surgelato venduto dalla Coop e nella zuppa di pesce surgelata venduta da Eurospin, e frammenti di alluminio nei wurstel a marchio Carrefour prodotti da Beretta.
Questo solo nelle ultime due settimane.
Tali prodotti sono già stati ritirati dal mercato e i consumatori sono stati invitati a non servirsene qualora li abbiano acquistati; tuttavia i controlli non sono così tempestivi come dovrebbero essere, visto che certi problemi emergono quasi sempre dopo la commercializzazione degli alimenti incriminati.
Sembrano invece funzionare meglio le ispezioni alla dogana per le importazioni: l'Italia ha respinto diversi prodotti provenienti dall'estero, tra cui vongole tunisine contaminate da colibatteri fecali e dal virus dell'epatite A; petti di pollo dalla Polonia contaminati da Salmonella; melograni di provenienza turca con eccesso di pesticidi.
È evidente che c'è un problema strutturale che va al di là del comprensibile errore umano e che coinvolge tutta la filiera produttiva degli alimenti destinati alla grande distribuzione e quindi alla maggioranza dei consumatori. Dall'eccesso di antibiotici impiegati negli allevamenti intensivi (di cui ho parlato in un mio precedente articolo), alla presenza di elementi nocivi per la salute, il cibo che finisce sulle tavole degli italiani sembra essere sempre meno affidabile; per non parlare degli scandali come quello della Terra dei Fuochi che hanno messo in dubbio persino l'integrità e la salubrità dei terreni e dei territori a vocazione agricola.
Qualcuno dirà che questi sono casi isolati, che la grande distribuzione non è solo questo, che non si può pensare che sia sempre tutto perfetto, ma sono argomentazioni abbastanza banali e lapalissiane e non consentono di affrontare il problema con il giusto piglio. Dobbiamo porci delle domande: abbiamo davvero bisogno del palombo surgelato? Abbiamo davvero bisogno della barretta di cioccolato al caramello? Davvero ci serve quel melograno asiatico?
Se pensiamo di avere queste necessità, allora qualcuno dovrà accontentarle e state pur certi che questo qualcuno pur di guadagnarci vi rifilerà qualunque cosa. Sarebbe invece più semplice affidarsi in primis alla stagionalità degli alimenti e ridurre contestualmente il proprio fabbisogno: siamo diventati una società che vuole le fragole tutto l'anno e che ha partorito la “sportina degli avanzi” perché non riesce a comprendere che, a casa e al ristorante, si può mangiare anche altro e senza doversi necessariamente abbuffare fino alla morte gastrointestinale.
Questa concezione del cibo come di un qualcosa che deve essere sempre disponibile, abbondante e riconoscibile nei sapori - ereditata malamente dallo stile di vita americano che ormai ci soverchia - ha portato a queste storture. E se la domanda eccede di troppo la normale offerta, per forza di cose il mercato si adegua facendo una scelta di quantità anziché di qualità.
Con il vino conosciamo bene questa forbice: da una parte il Tignanello, dall'altra il Tavernello. Che in mezzo ci sia un mondo è banale, appunto; il busillis è da che parte orientarci come consumatori, che non significa dover per forza acquistare solo eccellenze: bisogna però capire che puntare alla qualità, nel vino come nel cibo, è un modo per migliorare noi stessi e il mondo che ci circonda. Oltre che per evitare di ingurgitare metallo.
Bisogna rendersi conto che vivere nell'Unione Europea significa accettare che sia consentito, per esempio, produrre formaggi con il solo latte in polvere e importare olio dalla Tunisia senza dazi doganali; trovate aberranti che sono poi alla base di sofisticazioni alimentari e difetti di produzione, ma che trovano la loro ragione nell'eccessiva richiesta del mercato e nella scarsa attenzione alla qualità da parte dei consumatori.
Anche il nostrano Ministero della Salute però non se la cava male: è notizia di pochi giorni che la Direzione generale per l’igiene e la sicurezza degli alimenti e la nutrizione, ha dato il via libera all'impiego di una soluzione di acqua ossigenata, acido citrico e citrato di sodio come trattamento “sbiancante” per i molluschi cefalopodi (calamari, seppie, polpi et similia), in modo da farli sembrare sempre belli freschi; un po' come accade con i solfiti usati sui crostacei. Che questa pratica sia sicura per la salute, come garantiscono dal Ministero, non deve bastare a far stare sereno il consumatore, perché il principio alla base di certe scelte è sbagliato: aggiungere qualcosa ad un alimento per migliorarne la presentabilità, ovvero per mascherarne difetti importanti. È poi così diverso da chi nel vino aggiunge aromi chimici per ampliarne il bouquet, come accaduto di recente con alcuni produttori friulani di Sauvignon? Io credo di no, e come non sono disposto ad accettare certi trucchetti nel vino, non sono disposto a farlo con il cibo.
L'unico modo per evitare che sulle nostre tavole finiscano certi prodotti - privi di anima ma magari ben dotati di altri elementi poco piacevoli - è non comprarli, rifiutarli, conoscerli per evitarli. Bisogna indirizzarsi, piuttosto, su ciò che di alta qualità può offrire questo Paese.
Tramite queste pagine cerco sempre di narrare le eccellenze della gastronomia, convinto che siano l'unico vero argine all'omologazione del gusto e alla morte delle tradizioni e delle culture locali di ciascun popolo. Leggere quotidianamente notizie come quelle riportate all'inizio di questo articolo, mi convince sempre di più della bontà del mio impegno. Difendiamo le nostre eccellenze!