Per la ricetta ufficiale, abbiamo chiesto al macellaio-gastronomo Fabrizio Nonis, “bekèr” mediatico itinerante tra Cinto di Caomaggiore e Marrakech. In primis: no al Fegato di vitello da latte, troppo dolce e delicato, con preferenza invece per il manzo di 15-18 mesi, selezionato e lavorato da un macellaio di fiducia. No a scalogno e cipolle di Tropea o simili, sì alla Cipolla bianca di Chioggia, ideale per smorzare con la sua delicatezza la ferrosità prepotente del Fegato, sfumando in cottura con un goccio di aceto e con vino bianco, con l’optional di qualche pinolo e uva passa come nel classico Saor (vedi oltre). Scaldare bene una padella antiaderente, con un giro di buon extravergine veronese del Garda: niente burro e niente farina, se si vuole alleggerire la ricetta. Un piccolo accorgimento: incidere con le forbici in più punti i bordi del Fegato, in modo che eventuali residui della sottile pellicina che lo ricopre non lo facciano arricciare. Fettine intere o striscioline che siano, è preferibile operare velocemente e mantenere il fuoco vivace, evitando però la fiamma troppo alta e una cottura prolungata, che indurirebbe il Fegato. Salare solo alla fine, per non disidratare, rifinendo o meno con prezzemolo. Ispirata alla massima semplicità, la formula dell’amico Nonis si mantiene fedele ai canoni tradizionali dettati da Francesco Leonardi nel suo ricettario settecentesco, alla voce Fegato di mongana (giovenca) alla veneziana. Leonardi, primo grande chef italiano in senso moderno, non era veneto, ma romano, e tuttavia cosmopolita per formazione professionale, compiuta in Francia e poi in Polonia, Germania, Inghilterra e perfino impero ottomano, per approdare infine, come cuoco ufficiale e scalco di corte, al servizio di Caterina II imperatrice di tutte le Russie. Il suo “Apicio moderno, ossia l’arte di apprestare ogni sorta di vivande” condensa mezzo secolo di esperienza, rappresentando una preziosa testimonianza del gusto dell’epoca. Il nome è un dichiarato omaggio a Marco Gavio Apicio, facoltoso patrizio vissuto sotto Tiberio. E proprio il nome di Apicio viene ancor oggi immancabilmente citato, ogni volta che si parla di Fegato, in quanto pionieristico fautore dell’ingrasso preventivo degli animali (maiali e oche, all’epoca) con pastoni a base di fichi, tanto che quel Fegato ricercatissimo divenne noto col nome di “iecur ficatum” (fegato coi fichi). Quell’aggettivo ficatum, ripetutamente associato all’organo che gli antichi (a partire dall’épatos greco) ritenevano sede di sentimenti ed emozioni, ebbe tanta fortuna che spodestò il sostantivo, finendo per derivarne, etimologicamente, l’italiano fegato e il veneto figà. I veneziani, eredi per molti versi della grandeur e del gusto sontuoso e orientaleggiante della cucina romana, ebbero la geniale idea di sostituire ai fichi le “siòle” (cipolle) dolci e aromatiche coltivate nei terreni sabbiosi intorno alla laguna, matrimonio perfetto col gusto pronunciato del fegato.
Chioggia in particolare ne è l’epicentro. Storicamente utilizzata dai pescatori locali per conservare il pesce in periodi di pesca abbondante, mediante il “Saòr”, speciale marinatura ottenuta prefriggendo il pesce per poi dorare nello stesso olio abbondante cipolla bianca sfumata d’aceto, con la quale è infine ricoperto il pesce medesimo. Caratterizzata da colore bianco intenso e brillante, la cipolla di Chioggia si presenta piccola e tonda, tendente a cuoriforme. Due i periodi di raccolta: la precoce arriva già a maggio, mentre l’agostana matura in piena estate, tra luglio agosto.
Fino all’ultimo dopoguerra, quando in laguna erano ancora molte le famiglie che allevavano in casa il maiale, era tradizione cucinare allo stesso modo, con aceto e molta cipolla appassita, anche il sangue del suino appena macellato. Per chi si trovasse a Venezia, un indirizzo raccomandabile è la
Trattoria Dona Onesta, sestiere Dorsoduro, presso il ponte omonimo, a un minuto dall’Università di Ca’Foscari. A un Fegato alla Veneziana filologicamente corretto si abbina bene un rosso morbido, dal bel corredo fruttato e speziato, non troppo tannico, con terziario incipiente. Esaltante e raffinato l’abbinamento con un grande e troppo spesso dimenticato rosso di ispirazione bordolese che fece saltare sulla sedia il Presidente De Gaulle al quale fu dedicato, il Montello e Colli Asolani Venegazzù “Capo di Stato”, dei Conti Loredan Gasparini.