Il banchetto dell'onorata società
Quali sono le regole da rispettare a tavola quando i commensali sono esponenti di rilievo della criminalità? Ce lo spiega Gianfranco Manfredi, giornalista, esperto di enogastronomia e conoscitore di temi scottanti della malavita.
Pubblicato il 03/11/2016
Probabilmente di origine greca, nella parola ‘Ndrangheta era racchiusa l’idea dell’uomo coraggioso, valoroso. Erano queste le peculiarità chieste a chi volesse prendere parte a detta “onorata società”. Si tratta, in origine, di un certo tipo di mafia rurale che nasce in Calabria senza che ne siano ancora chiare le ragioni, diverse le teorie. Certa è l’ambientazione contadina.
La terminologia convivio intende, invece, il vivere insieme. Il Sommo Poeta sceglie questo titolo per uno dei suoi saggi letterari. Attraverso una mensa, Dante offre ai partecipanti una vivanda speciale: la conoscenza. Mentre George Gordon Byron sosteneva: “Tutta la storia umana attesta che la felicità dell’uomo, peccatore affamato, da quando Eva mangiò il pomo, dipende molto dal pranzo”. Potrebbe darsi. Numerosi i personaggi illustri che parlano di degustazioni di cibo e vino in modo esemplare. Lo scrittore inglese Oscar Wilde non sopportava coloro i quali prendessero l’argomento in modo leggero; il drammaturgo francese Guy de Maupassant riteneva che solo gli idioti non fossero buongustai; per lo scienziato Galileo Galilei il vino è la luce del sole tenuta insieme dall’acqua, delizioso pensiero; invece per il morigerato filosofo Aristotele è preferibile alzarsi da un banchetto né assetati né ubriachi.
Cosa accade, però, se i commensali del banchetto sono esponenti di rilievo della criminalità mafiosa? Aiuta a spiegarlo il giornalista Gianfranco Manfredi de Il Messaggero, esperto di enogastronomia e conoscitore di temi scottanti della malavita calabrese. Legato alla sua terra di origine, adora sorseggiare il Magno Megonio della cantina Librandi di Cirò Marina, un rosso che celebra in purezza il carattere del Magliocco e che Luigi Veronelli, sul Corriere della Sera, definì “meraviglia”…
Quale forma deve avere il tavolo dei mafiosi e perché?
I loro banchetti non si tengono mai intorno a paritari tavoli rotondi ma sempre rettangolari o disposti a ferro di cavallo. A capotavola siede il boss più elevato di grado o l’ospite più importante e la disposizione dei posti segue regole precise, secondo il rango di ciascun commensale. I banchetti, a ben guardare, dappertutto servono anche a marcare differenze e quindi obbediscono a regole di galateo o di cerimoniale. I protocolli mafiosi sono ferrei. Mangiare insieme è anche un rito di aggregazione e per loro, ancora di più, un momento che segna l’identità del gruppo. La ‘Ndrangheta, poi, attribuisce all’enogastronomia un’importanza fondamentale. La usa, “parla” anche attraverso il cibo, il vino e tutto quello che ruota intorno alla tavola. È nei banchetti, del resto, che concludono affari, decidono organigrammi, progettano alleanze, scissioni e strategie. Davanti a piatti fumanti, insomma, dirigono e organizzano, impartiscono ordini, celebrano promozioni, decretano condanne capitali.
Nel film Il Padrino sono celebrati diversi matrimoni ed il primo film si conclude con un battesimo, quale valenza hanno questi sacramenti?
I matrimoni fra “Famiglie” sono uno strumento di alleanze e i banchetti nuziali, sempre più faraonici, sono momenti topici d’incontro di massa. Nel 1996, a Isola Capo Rizzuto, al banchetto di nozze della figlia del boss locale i Carabinieri contarono 1700 commensali e la tradizione continua, anzi cresce. Qualche anno fa il ricevimento nuziale dello sposo Barbaro, di Platì, con una Pelle, di San Luca, per il numero enorme di invitati venne tenuto contemporaneamente in due ristoranti con gli sposi costretti a fare la spola. Le cosche in quell’occasione distribuirono le nuove cariche della ‘Ndrangheta riunendo i capimafia di Lombardia, Piemonte, Liguria, Germania e finanche canadesi e australiani. Per quanto riguarda i sacramenti e la religione, direi che i mafiosi hanno sempre mirato a legittimarsi emulando i riti, impadronendosi delle immagini sacre, appropriandosi di processioni e feste religiose. I mafiosi, però, più che fede ostentano devozione. Si appropriano delle processioni per acquisire visibilità e consenso sociale. Hai ricordato la famosa scena de Il Padrino col battesimo del figlio di Connie Corleone e lo zio Mike che fa da padrino: direi che è un concentrato di simbolismi con la sequenza del rito in chiesa inframezzata dalle scene truci del regolamento di conti che vede cadere traditori e capimafia rivali. È un battesimo di sangue, che conferisce sacralità alla gerarchia mafiosa e incorona il padrino di battesimo, Michael Corleone, “Padrino” ormai incontrastato dell'organizzazione criminale più potente degli Stati Uniti.
Esistono i cibi e i vini del potere?
Assumono questa valenza soprattutto in carcere, dove il capomafia è ufficialmente qualificato come tale, pur negando assolutamente qualsiasi responsabilità personale. Dietro le sbarre, però, deve dimostrare col comportamento di essere quello che tutti sanno ma che nessuno dice e la tavola entra in questa commedia. Le vettovaglie di cui, in genere, dispone sono talmente abbondanti che numerosi detenuti, in qualche caso anche il personale, ne beneficiano. Così il mafioso acquisisce meriti e consensi. Cibo e vini diventano ostentazione di ricchezza e strumento per acquisire potere. Alcuni collaboratori di Giustizia hanno raccontato che a metà degli anni Ottanta molti uomini d’onore si trovavano insieme nel carcere reggino di San Pietro. In quell’istituto un’intera dispensa era destinata alla conservazione del pesce, persino pescispada interi e di vini e champagne dei boss. Festini e pranzi favolosi. Nel penitenziario venivano anche tenuti agnelli vivi da macellare per le grandi occasioni.
Aragoste e champagne restano ancora un must per chi vuole ostentare il lusso. Cosa significano tali prelibatezze per i malavitosi?
Hai centrato la questione. Rappresentano conferma di ricchezza e potere, strumenti per acquisire vantaggi e consensi, ma anche un modo per sbandierare la loro affermazione sociale. Come in carcere, anche nelle latitanze ci sono mafiosi che largheggiano nel consumo di cibi e bevande di lusso come aragoste, caviale e champagne. Qualcuno, persino rintanato in un covo sotterraneo, ha coltivato ambizioni da dandy raffinato con ricche scorte di Dom Perignon.
Cosa rappresentano, invece, carne di capra, ricotta, frittule e pasta chijna nei pasti calabresi?
Sono cibi cult, identitari. La mafia calabrese ha le sue radici alle falde dell’Aspromonte. Ha a San Luca, a Polsi, il suo ‘Santuario’ e la sua storica ‘sede sociale’. È in quell’entroterra pastorale che ha cominciato ad espandersi. Quella originaria era una cucina “di necessità” e dunque essenziale, basata su ingredienti e materie prime reperibili facilmente o trasportabili in luoghi impervi. Pure in Sicilia il DNA dell’uomo d’onore ha origine nell’entroterra e anche ciò che mangia per rafforzare l’identità del gruppo. La pecora, ad esempio, arriva dalla montagna, dall’arcaico mondo pastorale e contadino.
La parola di origine greca tragedia è legata al culto del capro, animale correlato a Dioniso, dio del vino e al suo sacrificio. Quali sono gli animali sacrificati sulle tavole dei mafiosi e cosa simboleggiano?
Le pietanze top nei banchetti mafiosi sono la pecora, il ragù di capra e l’agnello. Quest’ultimo, simbolo antichissimo consolidato anche dalla tradizione cristiana, da agnello sacrificale diventa per la ‘Ndrangheta rappresentazione macabra di un delitto andato a buon fine. Diversi collaboratori di giustizia hanno riferito che dopo l’esecuzione di un omicidio festeggiano con l’agnello. Si scanna un agnello che viene cotto e consumato nell’immediatezza dagli affiliati, che brindano col vino pronunciando frasi allusive.
Per quale ragione i ghiri sono considerati dei piatti proibiti?
Forse proprio perché sono una selvaggina superprotetta dalla legge. È diffusa tra gli affiliati una vera e propria venerazione per questi roditori. Doppiamente proibita la caccia al ghiro perché è una specie selvatica protetta e perché viene praticata di notte quando nessuna attività venatoria è consentita. È l’ingrediente, dicono, di piatti straordinari. È un’opinione radicata fin dai tempi dell’antica Roma, quando i buongustai usavano glirarii di terracotta, per tenere all’ingrasso i ghiri nutrendoli di ghiande e miele.
Quando si verificò l’emigrazione degli “uomini d’onore” oltre Oceano, cambiarono le abitudini alimentari?
In pubblico sicuramente sì e in maniera radicale. Uno dei più potenti capimafia di New York è stato Frank Costello il cui vero nome era Francesco Castiglia, calabrese di Lauropoli di Cassano Jonio. Nel 1951 comparve davanti alla Commissione parlamentare Kefauver per rispondere di 20 miliardi di dollari accumulati. Di lui si conoscono anche i dettagli delle abitudini alimentari. Prendeva ogni giorno l’aperitivo e pranzava al ristorante del Waldorf-Astoria nel cuore di Manhattan. Nei suoi piatti passavano nasello o roast beef. Si limitava a spilluzzicare il contorno o l’insalata e, tralasciando il dessert, beveva solo tazze di caffè nero senza zucchero. C’è da aggiungere, però, che la madre del boss, Maria Saveria Aloise, aveva aperto a New York un negozio di specialità tipiche calabresi e del Sud Italia e che aveva iniziato l’attività vendendo i sacchetti pieni di peperoncino rosso portati in gran quantità dalla Calabria, praticamente quasi tutto il bagaglio suo e di suo figlio Francesco.
Quali sono i ristoranti scelti dai fuorilegge e perché?
Per quanto riguarda i ristoranti i mafiosi si regolano come per i piatti. Scelgono quelli più in voga, dove andare per ostentare il loro successo e la scalata sociale e quelli, invece, identitari e più appartati da frequentare con gli altri affiliati per ritrovare e rafforzare i vincoli associativi.
Esistono i boss-gourmet?
Il gangster Joseph Iannuzzi pubblicò anni fa The Mafia Cookbook, un libro di aneddoti e ricette. Joe Cipolla, uno chef siciliano negli USA dal 1919 che si dichiara “affiliato”, racconta i suoi piatti nel volume La cucina di Cosa Nostra. Il libro si apre con la dedica al boss Albert Anastasia, al secolo Alberto Anastasio, calabrese di Parghelia. Era canadese, invece, Frank Cotroni, un autentico boss-gourmet, scomparso a Montréal nel 2004, era l'ultimo grande esponente di una famiglia che per molti decenni ha dominato il Quebec, alleata dei Bonanno di New York. Frank Cotroni ha trascorso più della metà della sua vita dietro le sbarre ed è stato persino immortalato nel film Goodfellas - Quei bravi ragazzi - di Martin Scorsese, mentre cucinava la pasta su un fornello in carcere. Chef provetto e raffinato, ma anche appassionato cultore della cucina tradizionale calabrese, Cotroni, finalmente libero nel 2002, ha scritto e firmato in prima persona Cucina di ricordi e ricette, riccamente illustrato. “Quel libro era la sua passione, il suo sogno”, mi ha riferito il nipote Claudio Luca, produttore televisivo. Luca ricorda anche una confidenza dello zio, che gli rivelò: “Voglio essere ricordato così, non come un altro Al Capone”.