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I bianchi macerati: ritorno alle origini o moda?
Odio o amore. Nessuna via di mezzo sul gradimento di questi vini dalla storia millenaria.
Pubblicato il 21/06/2017
vitigno a bacca rossa




Se si usa con un entusiasta del vino - che però non abbia ancora fatto un corso da sommelier - l’espressione “vitigno a bacca rossa vinificato in bianco”, lui vi guarderà con aria compiaciuta ed esclamerà “certo, come per lo Champagne”. Infatti, come è noto, gli antociani sono presenti nelle bucce dell’uva, per cui, se durante il processo di vinificazione non vi è contatto del mosto con le bucce, il vino sarà sempre bianco. Provate però ad usare l’espressione “vitigno a bacca bianca vinificato in rosso” e subito vedrete dipingersi nel volto dell’appassionato la perplessità: probabilmente immaginerà che da uno Chardonnay o da un Verdicchio si possano ottenere vini rossi!
vitigno a bacca bianca

In verità, come noi appassionati “istruiti” dai corsi sappiamo, la macerazione delle uve a bacca bianca sulle bucce dà dei vini estremamente intensi nel colore, che può arrivare, ove il contatto sia molto prolungato, ad assumere una tonalità aranciata quando non addirittura ramata, da cui deriva l’espressione “Orange wines” coniata dalla critica anglosassone.
Ma a parte il colore, cos’hanno di particolare i vini bianchi macerati? Anzitutto, millenni di storia: sappiamo con ragionevole certezza che questa tecnica di vinificazione era diffusa sin dall’Antichità nel Caucaso, ossia nell’area ove la vitis vinifera ha iniziato ad essere coltivata per fare il vino. Ad ogni antica storia, tuttavia, corrisponde un destino moderno; in effetti, Georgia a parte, i bianchi macerati erano praticamente scomparsi, e sono stati ripresi solo in tempi recenti da alcuni viticoltori, dediti – a vario titolo – alla vinificazione “naturale”. Vogliamo ricordare, per tutti, Josko Gravner, che oltre a questa tecnica importò in Italia anche la tradizione delle kveveri, le gigantesche anfore georgiane in terracotta.
Josko Gravner
Le tradizionali anfore georgiane in terracotta
FotografiaAl di là del dato storico e culturale, tuttavia, la vinificazione con macerazione di uve a bacca bianca – specie se il contatto con le bucce duri svariati mesi – produce radicali mutamenti delle caratteristiche organolettiche del vino. Anzitutto, infatti, si attenuano in maniera marcata i sentori varietali, rendendo a volte quasi impossibile, alla cieca, stabilire quale o quali vitigni siano stati utilizzati; secondariamente, si innestano profumi tipici che ricordano la nespola, la mela cotogna, lo zafferano, persino la ruggine; infine, il vino assume una sia pur modesta carica tannica. L’insieme di queste caratteristiche, tra l’altro, rende consigliabile utilizzare temperature di servizio più alte di quelle normalmente usate per i bianchi: una temperatura di cantina, intorno ai 14-16 gradi, è più che adeguata.
È chiaro, dunque, che si tratta di vini dal percepibile aroma ancestrale. Proprio questa sensibile alterazione dei profumi divide nettamente in due le opinioni sui bianchi macerati: c’è chi non berrebbe altro, c’è chi li detesta. I detrattori, in particolare, sostengono che si tratti di una moda, quando non addirittura di una ostentazione di stili estremi e non più accettabili di vinificazione. A nostro avviso, è inopportuno adottare schieramenti preconcetti, mentre è utile ricorrere ad un semplice quanto spesso ignorato principio: se il vino è buono, allora è ben fatto; se è cattivo, non lo è. In altri termini: dietro la filosofia dei bianchi macerati si nascondono spesso atteggiamenti ideologici per i quali la “naturalità” giustificherebbe qualsiasi difetto, e questo approccio è pericoloso, perché tende ad allontanare dal vino chi cerchi un prodotto non solo culturalmente profondo, ma anche gradevole. All’opposto, bollare come difettato qualsiasi orange wine è altrettanto puerile, perché basta assaggiare una Ribolla di Gravner per comprendere la profondità e la suadente complessità di questo vino.
Non importa, dunque, ossessionarsi ad indagare se sia “sconsigliato” o “obbligatorio” bere un vino dal color arancio... avviciniamolo al naso, poi alla bocca. Se si produrrà la magia sensoriale che la “nostra” bevanda riesce a dare, il dilemma sarà già risolto.
Le vigne di Gravner
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