Un gruppo di case che si rincorrono sul crinale della collina protette dai Monti Ernici e dai Monti Simbruini: questo il piccolo borgo di Affile. Il Centro prese vita intorno all’anno 1000 a.C. con gli insediamenti delle popolazioni italiche degli Ernici e degli Equi e passò sotto la dominazione romana dal 133 a.C. Secondo le leggi romane, parte del territorio di conquista veniva suddiviso e destinato ai veterani in congedo che potevano contare su appezzamenti di due iugeri (circa mezzo ettaro): terreni che, data la particolare esposizione e il clima ottimale, furono disboscati e destinati a vigneto. Fin da quel periodo si ebbe testimonianza storica della coltivazione della vite lungo i pendii ed i pianori dei colli affilani e, di tale epoca, il conio del termine “cesanese” che trae origine dai terreni disboscati,“cesae” appunto, i “luoghi dagli alberi tagliati”. Conferma di quanto importante fosse diventata la coltivazione della vite per l’economia locale durante i secoli, è un editto comportamentale del Settecento del Municipio di Affile che riferisce di “pene severissime a chiunque avesse avuto l’ardire di recare danno alle vigne, sia per mano d’uomo che per tramite di bestiami”. Lo stretto connubio tra la popolazione affilana e la vite, testimoniato perfino dallo stemma araldico del comune, raffigurante un aspide attorcigliato ad un ceppo di vite con i grappoli nerastri, restò integro fino ai primi anni del Novecento quando, nel periodo prebellico, si producevano nella zona circa 10.000 quintali di uva cesanese all’anno per un’estensione vitata di circa 30 ettari. La qualità del vino prodotto era molto apprezzata, tanto che il Cesanese ottenne importanti riconoscimenti nelle esposizioni di Roma e Milano e fino oltre i patri confini: nel 1930, fu premiato con la Medaglia d’oro a Parigi e Bruxelles. Nel 1973 fu riconosciuta la Doc Cesanese di Affile che, oltre al comune medesimo, comprese in parte anche i territori di Roiate ed Arcinazzo Romano. Da questa data, che sarebbe dovuta essere l’inizio della tutela della secolare tradizione contadina, iniziò l’inesorabile declino dell’attività vitivinicola della zona e la produzione del Cesanese, destinato sempre più al solo consumo familiare.
Per evidente merito di un giovane della zona, Federico Alimontani, ed al suo testardo progetto di rivalutazione e rilancio del Cesanese di Affile, si riuscì nella vendemmia 2004, tramite la costituzione della cooperativa Colline di Affile, ad inaugurare la produzione della piccola Doc con circa 3.000 bottiglie. I vigneti, dislocati tra i 500 ed i 700 metri su un terreno calcareo e argilloso sono protetti da boschi di castagni, querce, carpini ed elcini, preziosa barriera ai venti di tramontana. Su queste colline, il Cesanese d’Affile ha affermato la propria diversità nei confronti del più diffuso Cesanese Comune, biotipo caratterizzato da espressioni morfologiche diverse, tanto che le sue origini trovano riscontri verosimili in tutt’altro territorio (la zona di Cesano nei pressi di Roma). Le differenze tra i due vitigni sono state enfatizzate dall’adattamento del Cesanese di Affile al territorio montano, le cui condizioni climatiche ne hanno valorizzato i caratteri rendendolo il vitigno autoctono più interessante del panorama ampelografico laziale. Come previsto nel progetto “Vigne nuove” delle Colline di Affile, nel 2006 sono stati impiantati in località Gaiano 3 ettari di nuovo vigneto, in affitto trentennale da 8 diversi proprietari, in cui si producono i due vini a denominazione dell’azienda: il Gaiano e Le Cese, entrambi da Cesanese di Affile in purezza. Le vigne del Le Cese sono allevate a cordone speronato con densità d’impianto di 4.000 ceppi per ettaro. La vendemmia è condotta manualmente e il vino, lavorato completamente in acciaio, resta in macerazione per 9 giorni sulle bucce. Svolge poi la fermentazione malolattica ed affina per 6 mesi in iper-riduzione sulle fecce fini per poi riposare 12 mesi in bottiglia. Vino immediato che si concede al bicchiere con il suo manto rubino. La freschezza dei profumi conducono la mente alla netta percezione fruttata, fresca e croccante, di viciola e ciliegia bianca (il graffione piemontese) e ad una elegante quanto decisa vena vegetale riconducibile al legno del Corniolo (“crognale” nel dialetto locale) ed alle sue bacche rosse cariche di tannini. Il tutto è poi imbrigliato da una sottile mineralità addolcita dal balsamico della felce e da una delicata speziatura. Il gusto, vibrante, in assoluta corrispondenza con l’impatto olfattivo, è confortato dalla nota alcolica che cerca di controllarne la decisa interazione acido- tannica, concedendo una misurata sensazione di morbidezza. Chiude con una leggera vena amarognola tipica del vitigno. Vino schietto che invoglia a bere. Alla salute di chi ci ha creduto e continuerà a crederci ancora.