Settant’anni non sono, in fondo, un tempo iperbolico. Non per il carrubo, almeno, improduttivo fino a dieci anni, a partire dai quali la produzione aumenta gradualmente fino alla maturità, compresa fra i 30 e i 100 anni. A cinquant'anni il carrubo (Ceratonia siliqua) può definirsi ancora una pianta giovane, visto che solamente a cento è in grado di toccare e superare l’optimum produttivo di cinque, perfino sei quintali di frutti, che maturano in agosto-settembre e hanno caratteristica forma di baccello allungato, proprio come i legumi ai quali sono affini, verde in fase di maturazione e bruno scuro quando è essiccato. In quanto specie dioica, vi sono piante con solo fiori maschili e piante con soli fiori femminili, oltre a rari esemplari ermafroditi. Per trasformarsi in frutti maturi i fiori, molto frequentati dalle api, impiegano un anno: quando i frutti vengono raccolti, l'albero ha già i fiori per la successiva fruttificazione. Il carrubo è tra le specie arboree più robuste e longeve. I tronchi possenti, in genere con divisioni che partono dalla base, presentano grosse branche orizzontali ramificate in un’ampia chioma sempre verdeggiante, alta in media 5-6 metri. Ma si contano diversi esemplari colossali di 4-500 anni, capaci di raggiungere i 12-15 metri di altezza, con chioma imponente di una decina di metri di diametro. Negli esemplari giganti così vetusti, l’apparato radicale penetra in profondità nel terreno, alla ricerca di acqua e nutrienti, spingendosi con forza anche negli strati più profondi di terreni semiaridi e inospitali, insinuandosi nelle fessure delle rocce e formando un ancoraggio a prova di cataclisma. In Sicilia si distinguono comunque diverse cultivar di carrubo. Le più diffuse sono la "Latinissima", altrimenti detta"Giubiliana"a Scicli, "Cipriana" a Modica e "Masculina" a Noto, molto robusta e con produzione abbondante e costante, e la "Racemosa", nota come "Moresca" a Scicli e a Modica, o "Carruba spada" o "Sciabulara" a Noto, che si presenta più liscia e meno imponente, ma dà frutti più zuccherini rispetto alla precedente. La "Morescona", diffusa a Scicli, è secondo alcuni sottovarietà della Racemosa, e si distingue da questa solo per la fruttificazione più abbondante e più costante. La maestosa "Saccarata" (sinonimi: "Latina", o "Fimminedda" o "Milara", da Milo, ai piedi dell’Etna) con frutti a grappoli è invece quasi abbandonata, penalizzata da una produzione capricciosa e incostante, al pari della "Falcata" (sinonimi: "Fauciara" a Rosolini o "Francisa"), pianta superba, che reca frutti allungati e falciformi, poco polposi e poco zuccherini, affini alle varietà semiselvatiche. Ermafrodite sono le varietà "Bonifacio" e "Tantillo", che prendono nome dalle aziende omonime. Le rese per ettaro dei carrubeti siciliani variano fra i 10 e i 50 q.li per Ha, di poco superiori alla media di Libano o Algeria. Spiccano al confronto, per quantità, i 100 q.li per Ha. della Spagna, frutto di alte densità e criteri intensivi.
Dal leccio, il nostro tipo di quercia più comune, il carrubo si differenzia per la forma delle foglie, simili nel colore, ma paripennate, e cioè disposte in numero pari sull'asse centrale della nervatura. Originario del vicino Oriente o, secondo altri, autoctono della Sicilia, sarebbe stato coltivato già 4000 anni fa, ed era ben noto sia agli antichi Greci, sia a Fenici e Cartaginesi, che attuarono una prima diffusione. A dare impulso definitivo alla pianta da essi chiamata Kharrub furono però gli Arabi, che ne estesero la coltivazione a tutto il bacino del Mediterraneo. Attualmente i carrubeti più estesi si trovano nella Spagna meridionale e nelle Baleari, in Portogallo, nella zona costiera dell'Africa settentrionale (Algeria, Tunisia, Marocco), ma anche in Palestina, Libano e Italia peninsulare, su tutto il versante tirrenico dalla Liguria alla Calabria, in Puglia, Sardegna e soprattutto Sicilia, col 70% del patrimonio nazionale, in particolare nel Ragusano, dove ancora oggi, nonostante le frequenti estirpazioni per far posto alle moderne colture intensive, il carrubo domina quasi incontrastato i terreni più scoscesi, caratterizzando fortemente il territorio ibleo assieme alle "masserie" e ai tipici muretti a secco. Fino all’ultimo dopoguerra, la Carruba era molto utilizzata per l’alimentazione diretta umana e animale, dolce preda dei monelli di campagna durante le loro scorribande nel campo del vicino, nonché chicca a basso costo per cavalli e somarelli. Conservabile a lungo, in città arrivava con gli ambulanti, che assieme a semi di zucca e lupini la vendevano ai giardini pubblici, come succedaneo del cioccolato. Oggi la Carruba, scomparsa dalle abitudini alimentari della generazione attuale, è quasi introvabile al di fuori delle zone di origine, ancorché apprezzatissima dall’industria di trasformazione, per le sue pressoché illimitate possibilità di impiego. La composizione media della polpa contenuta nei baccelli (considerando un tasso di umidità variabile dal 5al 25%) è la seguente: carboidrati (saccarosio e glucosio) fino al 90%, proteine 5% e grassi 1%, oltre a un elevato contenuto di fibra (cellulosa). Sono presenti inoltre preziosi microelementi, quali ferro, calcio, potassio, rame e manganese e vitamine (A, D, riboflavina e gruppo B), oltre a tannini di elevato potenziale antiossidante. Dai semi della Carruba si ricava una farina di impiego assai frequente nell'industria dolciaria e delle conserve alimentari. Classificata a volte con la sigla E410, la farina di semi di carrube ha sapore neutro e altissima viscosità (merito della sostanza chiamata carrubina, combinazione di mannoni e galattoni idrosolubili), che la rende capace di assorbire acqua per 50-100 volte il proprio peso, rappresentando perciò un ottimo addensante in gelateria (si scioglie a caldo e non crea grumi!), salse come la maionese e preparazioni alimentari semiliquide, al pari di alginato e farina di semi di Guar. Anche nelle industrie cosmetico-farmaceutiche, tessili e cartarie, la farina di semi di carrube è onnipresente come eccipiente, legante, stabilizzante, flocculante, omogeneizzante, ecc. Per la sua naturale capacità di assorbire acqua, è rimedio tradizionale dei berberi del deserto contro la dissenteria; la polpa della Carruba esercita, al contrario, una blanda azione lassativa. Storicamente, inoltre, i semi di Carruba, dicotiledoni protetti da un triplice strato incrociato, impermeabile e di proverbiale durezza, ma soprattutto sorprendentemente uniformi per dimensioni e peso costante di 0,20 grammi, vennero impiegati per secoli dagli antichi mercanti di oro e pietre preziose, che li chiamavano carati, usandoli per pesare. La parola deriva dall'arabo qira? (ventiquattresima parte), a sua volta derivante dal greco kerátion (diminutivo di keras, "corno", con allusione all’aspetto e alla durezza cornea). Narra una leggenda siciliana che la Madonna apparve in sogno al sovrano Guglielmo II d’Altavilla detto il Buono, addormentatosi all’ombra di un carrubo dopo una battuta di caccia, rivelandogli che proprio in quel luogo era sepolta una gran quantità di monete d’oro. Al risveglio, re Guglielmo fece scavare, e col tesoro ritrovato fece edificare il magnifico Duomo di Monreale. Oggi il tesoro potrebbe rivelarsi… la Carruba stessa, oggetto di tutela e di riscoperta. A Cipro, dove si può visitare un Museo della Carruba con antico mulino a Limassol, la specialità dolciaria Pasteli (pasta di Carruba, sesamo e miele) è ora presidio Slow-food, mentre in Tunisia è in gran voga un drink analcolico alla Carruba, chiamato Cidre El Meddeb. Nel Parco del Cilento Angelo Giuseppe Antuoni lancia la “Pasta del Deserto” a base di farina di Carruba, ben tollerata anche dai celiaci, utilizzando il prodotto degli alberi tra Paestum e Sapri, mentre l’azienda modicana Karrua propone un’intera gamma di prodotti a base di Carruba, inclusa una variante del celebre cioccolato locale. Oltralpe, si appassionano alla Carruba mostri sacri come Guy Martin del tristellato Grand Véfour, che impiega frutti secchi interi nella sua Soupe au chocolat. Ma anche sul piano dell’alimentazione naturale e dell’healthy food, l’umile Carruba sta pian piano riguadagnando terreno. Per la sua ricchezza in fibre (4 %), la Carruba regola la peristalsi intestinale e accelera il metabolismo, inibendo l’assorbimento lipidico e favorendo il cosiddetto “colesterolo buono” HDL, col pregio aggiuntivo di un alto potere saziante, che soddisfa la voglia di dolce, apportando meno calorie e meno grassi del cioccolato. Coadiuvante nel controllo del diabete mellito, la farina di Carruba presenta zuccheri riduttori che non alterano il picco glicemico, e vista la scarsissima presenza di glutine, non solo è idonea per celiaci, ma trova impiego nell’alimentazione neonatale come additivo al latte in polvere, aumentandone la digeribilità e limitando i problemi di riflusso gastro-esofageo. Anche per gli adulti la Carruba è un vero toccasana per l’apparato digerente, e non soltanto per le già ricordate proprietà antidiarroiche, ma in quanto efficace anti-gastritico, riequilibratore della flora batterica, in grado di eliminare gonfiori di pancia e meteorismo grazie ai tannini, che contrastano i germi putrefattivi, responsabili dell’anomala produzione di gas intestinali. Inoltre, l’elevato tenore in polifenoli, in particolare acido gallico (2,57 ml per grammo) e antocianidine, giova alla prevenzione delle alterazioni degenerative, inibendo la proliferazione tumorale cellulare. Per le sue proprietà emollienti, infine, lo sciroppo di Carruba giova alla tosse grassa e secca. Come non bastassero i suoi mille meriti in farmacopea, in letteratura abbondano le citazioni poetiche e celebrative del carrubo, vero albero della vita per le popolazioni mediterranee di ogni tempo e paese. Per ricordare solo le più note, nella Bibbia la Carruba è chiamata pane di San Giovanni, o fagiolo delle locuste, in quanto unico, frugale cibo di Giovanni il Battista in ascetico esilio nel deserto, mentre il Figliol Prodigo (cap.15) del Vangelo di San Luca, dopo aver dilapidato l’eredità paterna, è talmente affamato “da volersi riempire il ventre con le carrube date in pasto ai porci, ma nessuno gliene offriva”. Numerosi i riferimenti anche nella letteratura araba tradizionale, a partire dalle quartine del poeta persiano Omar Al Khayyam, vissuto nel XII secolo, grande amante del vino. Tra gli autori più moderni, non poteva mancare Salvatore Quasimodo, che nostalgico della sua Sicilia, evoca “le cantilene dei carri lungo le strade /dove il carrubo trema nel fumo delle stoppie”. Come la Quercia del Tasso, il maestoso carrubo protegge i vati e ne ispira il lirismo. Sotto il secolare carrubo della Masseria Paccianna di Gallipoli, amava comporre versi Raffaele Carrieri, poeta, giramondo e critico d’arte, mentre al “grande carrubo di Parabita” rivolge la sua invocazione Biagia Marniti, la “nera” allieva di Ungaretti, scomparsa anch’essa da poco.