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La Galassia dei Miracoli
L’intervento di Stefano Milioni al 42° Forum della Cultura del Vino il 1° luglio 2024
Pubblicato il 03/07/2024
L’intervento di Stefano Milioni al 42° Forum della Cultura del Vino il 1° luglio 2024

Per descrivere lo stato dell’arte dei vini laziali e del loro attuale difficile rapporto con la ristorazione romana può esserci di aiuto un’immagine tratta dall’astronomia: lo possiamo immaginare come la congiunzione astrale tra due Costellazioni che si verifica all’interno della Galassia dei Miracoli: la Costellazione dei Ristoratori e quella dei Produttori di Vino.
Simili e contigue ma divise da una sostanziale differenza: la Costellazione dei Ristoratori, infatti, “vive” di miracoli mentre quella dei Produttori di Vino “crede” nei miracoli. 
Per la prima, i miracoli si ripetono ogni giorno da oltre due millenni mentre per la seconda i miracoli hanno smesso di avvenire già da vari decenni.
In realtà, per quasi duemila anni, le distinzioni tra le due costellazioni sono state pressoché impercettibili: infatti, nella Roma antica come in quella di pochi decenni fa non c’erano “ristoratori” ma solo “osti”, la maggior parte dei quali gestiva “frasche”, ovvero punti vendita urbani dei produttori di vino (nell’ultimo millennio per lo più nobili famiglie di investitura papale) del circondario.
E la clientela era costituita soprattutto dai “visitatori” e “pellegrini” che affluivano a Roma quotidianamente, prima dalle periferie dell’Impero e, più tardi, dal nord Europa, lungo la direttrice della Via Francigena. 
Nell’anno 100 D.C. Roma contava 1.500.000 abitanti e già allora era in atto un quotidiano e costante afflusso di visitatori che convergevano alla capitale dell’Impero per le più svariate ragioni. E tutti necessitavano di cibo, vino e, possibilmente, convivialità. In quelle osterie, insomma, si intrecciavano due facce della primordiale ristorazione: quella della necessità e quella del piacere.
Nel Vecchio Mondo, i ristoranti (intesi in senso moderno) sono nati solo dopo la Rivoluzione Francese, ovvero laddove l’aristocrazia è stata messa fuori gioco dalla borghesia ed i borghesi, non potendosi permettere le cucine e gli chef dei nobili che li avevano preceduti, hanno cominciato a togliersi lo sfizio di “vivere da nobili” almeno qualche sera al mese. 
Questo processo di trasformazione a Roma non si è mai verificato perché, mentre la Francia ribolliva di cambiamento, a Roma perduravano pressoché indisturbati il dominio e le liturgie sociali del Papato. 
Più tardi, con l’Unità d’Italia, almeno a livello di potere, la borghesia è rimasta al palo e la trasformazione di Roma da Capitale della Cristianità a Capitale del Regno ha, di fatto, ottenuto solo l’effetto di affiancare all’aristocrazia papalina l’aristocrazia sabauda e di ingrossare il flusso dei pellegrini con un crescente accorrere di visitatori laici.
Un flusso che è aumentato in modo anomalo con l’avvento della Repubblica i cui palazzi del potere si sono rivelati una potente ed irresistibile calamita per i politici di periferia, i burocrati, le controparti sociali e sindacali, gli affaristi e i faccendieri. 
Si è calcolato che, nel 2023, a fronte di una popolazione di 2.750.000 abitanti, ogni giorno, siano affluiti a Roma non meno di 1.750.000 visitatori. 
Questo spiega il perpetuarsi del miracolo quotidiano di cui vive da oltre due millenni la ristorazione romana. 
Le cose non sono andate per lo stesso verso per i produttori di vino laziali. 
Il declino delle “frasche” e delle osterie romane ha coinciso con la crescita della borghesia, alta, media e piccola, tanto nazionale che romana, che non si affacciava più ai luoghi di somministrazione di cibo e vino solo per ragioni di necessità ma anche – e di anno in anno sempre di più – alla ricerca di una affermazione ed ostentazione sociale. 
Alla clientela contrassegnata da questo nuovo profilo non bastava più la spensieratezza del “ma che ce frega, ma che ce ’mporta, si l’oste ar vino c’ha messo l’acqua”: voleva qualificare i propri comportamenti pubblici anche attraverso i consumi di cibi più raffinati e, soprattutto, di vini dal profilo meno becero di quello che nei passaggi dalla cisterna alla “botticella” e poi ai boccioni infilati sottosopra negli armadi di mescita diventava sempre più arancione e chiedeva disperatamente di essere “aggiustato” con uno spicchio di limone ed una copiosa iniezione di gazzosa. 
I “ristoranti” intesi in senso classico hanno cominciato a moltiplicarsi a Roma a partire dagli anni ‘60 ed in concomitanza con il cosiddetto boom economico. Ma i Romani non vi accedevano con la frequenza odierna: era necessaria un’occasione speciale, un battesimo, una cresima, un matrimonio, il consolidamento di una amicizia, di una alleanza, di un affare. Tutte occasioni in cui, solitamente, mangiavano e bevevano tutti gli invitati ma quello che pagava era uno solo. E quello che si faceva carico del conto tendeva a fare scelte che esprimessero al massimo il valore di ciò che veniva offerto. 
Poteva essere all’altezza un pur buon Frascati o un Velletri? Ovviamente faceva molto più effetto un Sauvignon del Collio, un Barolo, un Amarone, un Chianti. Ed è così che le carte dei vini dei ristoranti della nuova generazione si sono affollate di vini forestieri di più elevata immagine e quelli del Lazio sono finiti nel dimenticatoio. 
Curiosamente, mentre grazie a nuove sensibilità e all’apporto di agronomi, enologi e tecnologie, la qualità dei vini della regione cresceva, il miracolo che li aveva tenuti felicemente in vita per secoli non si rinnovava più, anche se non smettevano di crederci. 
Come spesso accade, se la parrocchia che si frequenta abitualmente non produce prodigi, si tende a rivolgersi altrove. Così, per prima cosa i produttori del Lazio hanno pensato di andare in pellegrinaggio alla chiesa di Nostra Signora delle Doc. Ci hanno creduto cecamente e, vedendo che, comunque, non funzionava, hanno convinto il priore ad allargare il ventaglio delle Sante Doc, dedicando ad ognuna un cappella o un altare più o meno maestoso, fino a perdere di vista la navata centrale. 
Un discreto numero di produttori, visto che il miracolo continuava a non avverarsi, ha pensato bene di inginocchiarsi ai banchi dell’Abazia delle Barriques. Ma anche qui, niente da fare. Poi è venuto il tempo di portare fiori e accendere ceri al Santuario dei Santi Cabernet e Chardonnay: tante speranze (e investimenti) ma scarsi risultati. Infine, un manipolo di vignaiuoli al limite dell’eresia, ha tentato la strada delle cappelle di campagna, ciascuna dedicata ad un diverso vitigno autoctono ma nemmeno questo è servito per ottenere il miracolo di apparire nella prima pagina delle carte dei vini dei ristoranti romani. 
Quello dei produttori del Lazio è un travaglio che si trascina da qualche decennio e ad essi va dato atto che, nonostante tutto, non hanno smarrito la fede e, nell’attesa del miracolo, sono diventati migliori, in vigna e in cantina, nella sostanza e nell’aspetto. 
Oggi, qualunque bravo degustatore non può negare che i loro vini hanno raggiunto una sostanziale “bellezza” in grado di sostenere a testa alta qualunque confronto. Ma, spesso, la bellezza non è sufficiente per aprire tutte le porte. A meno che non sia accompagnata da una adeguata dose di “fascino” e dobbiamo riconoscere che tanti, troppi vini laziali sono sorprendentemente belli ma relegati ai margini del mercato proprio per una cronica mancanza di fascino. E, purtroppo per loro, non esiste una bottega in cui lo si può andare a comprare un tanto al chilo e a nulla possono valere espedienti alla portata di tutti da appiccicare al volto come fossero rossetti, fondotinta, rimmel e filler, strumenti insuperabili se usati per sopperire ad una fondamentale bruttezza ma del tutto inappropriati per arricchire di fascino chi è già bello di suo. 
I vini del Lazio non sono più topini e zucche: negli ultimi decenni si sono trasformati in cavalli bianchi e carrozze dorate ed è arrivato il tempo in cui smettano di comportarsi da Cenerentole ed assumano i toni regali delle Principesse. 
Toni che, ahimé, non si acquisiscono frequentando insistentemente il salone dell’estetista, il parrucchiere o il sarto alla moda.
Forse, è arrivato il tempo di iscriversi a qualche corso di buone maniere.

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