Correva l’anno 1985. Un anno pervaso da meraviglie e da tragedie. Michail Gorbacëv prendeva il potere in Unione Sovietica, avviando il new deal più rivoluzionario del XX secolo. Allo Stadio Heysel di Bruxelles la furia folle e omicida degli hooligans dava corpo a una delle pagine più tragiche della storia del calcio. In mari tra loro agli antipodi l’Achille Lauro era ostaggio di feroci terroristi e Greenpeace, impegnata nella protesta contro gli esperimenti di Mururoa, veniva umiliata e vilipesa da un’inquietante attentato dinamitardo. Nell’autunno piemontese in una cantina si preparava un vino che da lì a pochi mesi avrebbe ucciso 19 persone e tolto la vista ad altre tre. Quella stessa vendemmia avrebbe generato, al tempo stesso, alcuni tra i più straordinari fuoriclasse dell’intera storia del vino. Sassicaia a Bolgheri, Château Lynch-Bages a Bordeaux, tanto per citare un paio di bottiglie da brivido. In terra di Langa era inimmaginabile che si potesse “ripetere l’irripetibile”, ovvero replicare la magia del 1982, sino ad allora vera e propria pietra di paragone della perfezione dei vini a base Nebbiolo.
La natura riuscì a nell’impresa di riproporre in chiave ancor più enfatica quel miracolo di condizioni favorevoli che consentirono, e consentono ancor oggi alla vendemmia ‘85 di proporsi al cospetto di altre buone annate con lo stesso rapporto che fa la differenza tra un artista e un bravo tecnico. Del bravo tecnico si apprezzano la capacità e l’asettica perfezione, dell’artista si ammira la capacità di regalare emozioni. Lo spunto per tali riflessioni è generato da un bicchiere di Barolo Borgogno Riserva 1985, vera e propria quintessenza di ciò che di più appagante, seducente e complesso un vino possa dare. Un Barolo, vero, di razza, ancora in piena spinta ascendente nell’arricchimento di un bouquet che pare già senza fine e dalla persistenza aromatica esplosiva e interminabile. Una bottiglia magistralmente prodotta dopo una stagione nella quale i diversi cicli di maturazione dell’uva hanno coinciso temporalmente alla perfezione, fattore essenziale e assai raro per definire un’annata realmente “grande”. Sto per cedere alla maledetta tentazione, figlia della deformazione professionale, di elencare i singoli profumi e di scadere nella fredda e “sommelieristica” analisi sensoriale. Mi fermo pensando alle mani nodose che raccolsero quelle uve e alle mani sapienti che riuscirono a rovinarle il meno possibile in cantina. È un vino ancestrale che riassume e svela la storia di una terra, i suoi odori e i suoi sapori. Forse anche il legno delle grandi botti delle cantine Borgogno, materia nobile ed eternamente viva, provò emozione nel ricevere l’onore di ospitare cotanto nettare per custodirlo e valorizzarlo negli anni a venire.
Borgogno
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