Alcuni mesi fa un carissimo amico, appassionato di vino e operante nel settore dell’alta finanza, mi informava di essere venuto a conoscenza che un importante e facoltosissimo imprenditore indiano intendeva operare un investimento sul vino italiano, con l’obiettivo di distribuirlo su nuovi mercati orientali e africani nei quali aveva avviato catene di negozi e supermercati. Il businessman in questione era alla ricerca di prodotti dal buon rapporto qualità/prezzo consigliati da un esperto di settore neutrale e fidato. Incuriosito, ho tentato di comprendere meglio i dettagli dell’esigenza contattando i referenti di questo Paperone d’Oriente.
Chissà, pensavo, poteva essere l’occasione per dare una mano ad alcune aziende vinicole italiane, che pur esprimendo ottima qualità a prezzi spesso commoventi hanno difficoltà a dare sfogo alle vendite per mancanza di visibilità e per l’impossibilità di far conoscere i loro prodotti. Nella fascia compresa tra i 5/6 e i 10/12 euro a bottiglia, l’Italia non conosce rivali, è il solo paese dove in alcune realtà territoriali storicamente poco blasonate oggi è addirittura possibile trovare l’eccellenza assoluta. Ho ingenuamente inviato una relazione sulle diverse caratteristiche dei vini italiani, facendo riferimento a diverse tipologie, denominazioni, tradizioni, stili, per capire quale potesse essere la fattispecie organolettica più consona alle necessità dell’acquirente. Magari posso fare del bene a un intero territorio, pensavo. Poi arrivano le carte scoperte. Il Maharaja, dovendo insistere su mercati “molto sensibili al prezzo”, e dovendo acquistare quantità corrispondenti a circa 24.000 litri a settimana, era disposto a pagare un prezzo massimo di 60 centesimi di dollaro USA per litro, comprese spedizione e sdoganamenti. Praticamente il vino poteva costare 20 centesimi di euro al litro, ampiamente, cioè sotto il limite del comune senso del pudore. Il risvolto drammatico è stato il venire a sapere che la richiesta è stata successivamente soddisfatta.
Questa vicenda è solo la punta dell’iceberg della triste realtà dell’export italiano, che al di là delle tronfie e miopi dichiarazioni di certa stampa e della politica, secondo le quali avremmo “superato i francesi nelle vendite all’estero”, è rappresentato ancora per circa il 60% da vino sfuso di improbabile qualità, imbottigliato a destinazione con etichette di fantasia e spesso di dubbio gusto. Se a parità di volumi esportati fatturiamo la metà della Francia, vuol dire che la straordinaria cavalcata compiuta dal vino italiano nell’ultimo trentennio rappresenta solo un faticoso allenamento, e che la competizione vera dobbiamo ancora iniziarla.
A est di Santa Maria di Leuca non siamo neppure tra i primi cinque Paesi esportatori, superati da Francia, Australia, Cile, California, Spagna. Si svuotano solo le cantine dei ‘soliti noti’, ma la pletora di tanti piccoli contadini/imprenditori del vino, autentico patrimonio nazionale, che non hanno alcuna visibilità, oggi ignobilmente vessati da fisco e banche, soffre la mancanza di una guida che possa dare loro la vetrina che meritano. Missioni imprenditoriali, fiere ed eventi finanziate dallo Stato offerte a chi lavora seriamente e può essere portabandiera della qualità Made in Italy, è così impossibile? Ci sono fondi europei male o addirittura mai utilizzati, ci sono uffici ICE che costituiscono unicamente centri di costo e stipendifici privi di alcuna utilità. Questa è la situazione, piaccia o non piaccia. Ho sognato di avere un Presidente del Consiglio che ami il vino italiano di qualità almeno quanto lo amiamo noi. Chi ama il vino vero ama la terra, ama le cose buone e semplici e ama il prossimo. E ama il proprio Paese, questo Paese, che soprattutto di amore ha bisogno, e che non merita il tritacarne della globalizzazione a prezzi di saldo perché con essa non ha nulla da spartire.