Se gli Stati Uniti sono il paese delle contraddizioni, il luogo dove, nel bene e nel male, tutto è possibile, noi viviamo certamente nel luogo dei paradossi. Esprimiamo delle individualità e delle intelligenze uniche e invidiabili, universalmente contese, e abbiamo contestualmente la propensione endemica di farci rappresentare dai peggiori. Deteniamo i quattro quinti del patrimonio artistico mondiale e non riusciamo a vivere di turismo, che rappresenta una voce ridicola, rispetto al suo potenziale, nella bilancia dei pagamenti. La natura ci ha dato la terra più bella e variegata del mondo, una sorta di riassunto degli habitat possibili per l’umanità, e ne abbiamo fatto il luogo a più elevato rischio di dissesto idrogeologico del pianeta.
Neppure il vino fa eccezione. Possediamo il più vasto patrimonio autoctono del globo, e diventiamo famosi all’estero grazie al Pinot Grigio. Esprimiamo senza dubbio alcuno la più elevata qualità media al mondo ma riusciamo a esportare fiumi di improbabile e pessimo vino sfuso proveniente da filiere industriali. La capillarizzazione del nostro sistema produttivo, articolato su centinaia di migliaia di aziende vinicole, per lo più familiari, rende effettivamente difficoltoso, da noi più che altrove, compattare il settore e “fare sistema”. C’è, da Los Angeles a Bangkok, un universo di gourmet, di nuovi aficionados del vino, di appassionati e affamati di italianità, che vuole conoscerci meglio e che si esalta al cospetto delle nostre migliori espressioni qualitative, e che si lascia affascinare dalle biodiversità e dalle territorialità. Qualità unita a biodiversità e territorialità. Nessuno più dell'Italia può concretizzare queste espressioni e riassumerle dentro una bottiglia.
Abbiamo passato anni cercando erroneamente di capire il gusto del lontano consumatore straniero modificando e adattando i nostri vini a palati sconosciuti invece di esportare messaggi culturali di conoscenza del territorio e delle sue differenziazioni che si traducono in una miriade di odori, sapori ed emozioni. Lo straniero che si commuove dinanzi a San Pietro, al cenacolo di Leonardo, al David o al Colosseo, lo fa perché vede materializzarsi un patrimonio culturale che ha appreso e nel proprio intimo ha mitizzato. Con le dovute proporzioni, ho visto consumatori indonesiani esaltarsi fino alla lacrima per il ruvido tannino di un Barolo dopo avergli insegnato che esso esprimeva il carattere di uomini ruvidi e di contadini che negli anni avevano trasformato una terra ostica e aspra in un luogo delle meraviglie. L’Italia e gli italiani non devono modificare il gusto del vino per adattar lo alle mode o ai palati neofiti. Così si abbassa la qualità e si mortificano le nostre peculiarità. Dobbiamo convincerci, e convincere chi si appresta a guidare questo sgangherato Paese che il primato e l'esportazione della cultura sono il viatico principale per dare voce nel mondo alla miriade di eccellenze che attendono solo di essere conosciute. Il vino, molto più dello spread, ci può salvare.